La Sicilia, per chi non la vive o non l’ha mai vissuta, è una terra in cui il passato non riesce mai a scollarsi del tutto dal presente. Quel che è stato non può essere messo da parte una volta per tutte e dimenticato: fa parte del DNA di quest’isola a tratti maledetta e a tratti meravigliosa. Che ci piaccia o meno, col passato bisogna conviverci e per questo la memoria andrebbe esercitata ogni giorno attivamente. In Sicilia, l’idea che dagli errori del passato si impari qualcosa di positivo (e si impari soprattutto l’abilità del non sbagliare due volte) vale a metà: se è vero che tante cose sono cambiate rispetto agli anni bui degli omicidi e delle guerre di mafia, della corruzione dilagante, dell’omertà, è pur vero che, in fondo, il virus mafioso è ancora presente, a volte è persino palpabile nell’aria, nella gente, nelle “cose” di questa grande isola. D’altronde è pur sempre la terra del Gattopardo, la terra del “tutto cambia perché nulla cambi”.

Proprio in questi ultimi giorni è tornato alla ribalta un caso che ha a che fare con il passato. Un passato drammatico. Da un’inchiesta realizzata dalla procura di Palermo e coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, risulta che i boss dell’entroterra siciliano avrebbero tentato di riorganizzare la Stidda, una delle costole più sanguinolente e pericolose di cosa nostra, protagonista alla fine degli anni ‘80 di una vera e propria guerra di mafia in contrapposizione alle cosche più importanti della “casa madre”.

Una riorganizzazione, questa, che stando a quanto scoperto dagli inquirenti sarebbe stata possibile grazie anche alla collaborazione di insospettabili, nonché di un’avvocata che avrebbe assunto un ruolo centrale all’interno del clan e che avrebbe fatto da intermediaria tra gli affiliati e alcuni esponenti condannati al 41bis. Al vertice di questa importante struttura riorganizzativa, secondo gli inquirenti, figurerebbe il boss di riferimento degli stiddari, che sarebbe Antonio Gallea, già condannato all’ergastolo, perché ritenuto il mandante dell’omicidio del magistrato Rosario Livatino (avvenuto nel settembre del 1990), e messo poi in semilibertà nel 2015 per essersi reso disponibile a collaborare con la giustizia. Ecco come come il passato torna a bussare alle porte del presente. L’uccisione del giovane magistrato siciliano, definito “il giudice ragazzino” (all’epoca aveva solo 38 anni), destò sin da subito scalpore nell’opinione pubblica italiana. Quel bravo giudice di una provincia dimenticata, divenne tutto d’un tratto la figura di spicco della giustizia e della lotta alla criminalità in un periodo triste e cupo per l’Italia.

Due anni prima di Falcone e Borsellino, Livatino è riuscito a diventare (suo malgrado) martire ed eroe di un Paese assediato dalle mafie, un Paese coinvolto, corrotto, complice, che con le mafie avrebbe addirittura trattato. A distanza di 31 anni la situazione è in parte cambiata, ma ciò non basta, non è sufficiente. Il fatto che proprio quel boss che ha emanato l’ordine di omicidio abbia goduto non solo di una libertà parziale, ma soprattutto della possibilità di riorganizzare quella cosca sanguinaria, non deve e non può lasciarci indifferenti. Men che meno se abbiamo davvero a cuore la memoria e il ricordo di un grande uomo quale Livatino. Un uomo dello Stato, in quanto giudice, e un uomo (laicamente parlando) di fede, in quanto credente.

Proprio la Chiesa, in questi ultimi giorni, si è espressa sulla figura del giudice siciliano con la notizia che il 9 maggio verrà effettuata la celebrazione di beatificazione presso la Cattedrale di Agrigento. Al momento c’è grande incertezza sui dettagli della celebrazione, ma quel che è certo è che si farà di tutto perché Papa Bergoglio possa presenziare alla beatificazione del giudice. La scelta di una data così significativa, comunque, non è casuale: il 9 maggio del 1993 è il giorno in cui l’allora pontefice Giovanni Paolo II lanciò la sua invettiva contro la criminalità organizzata, un vero e proprio anatema di fortissimo impatto mediatico e sociale che si concluse (lo ricorderanno tutti) con queste parole: “Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte”. Il 9 maggio, inoltre, è anche la data dell’omicidio di Peppino Impastato, altro grande siciliano ucciso dalla mafia, ancora oggi ricordato ogni anno tra le vie della sua Cinisi e non solo.

La beatificazione del magistrato Livatino, ad ogni modo, non è poi una vera e propria sorpresa: lo stesso Papa Bergoglio, infatti, ha sempre espresso ammirazione per il giovane giudice, tanto da ritenerlo “un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni”. Al di là di tutto, qualora ce ne fosse bisogno, ci troviamo di fronte all’ennesima dimostrazione di quello che è stato il giudice Rosario Livatino e del valore immenso che ha avuto e che ha tuttora nella memoria di tutti noi. Un giudice buono, attento al proprio dovere di servitore dello Stato e che, proprio per questo, ha pagato con la propria vita il prezzo del proprio senso del dovere, del proprio lavoro, della supremazia della dignità sulla paura.

Adesso persino il Vaticano ha deciso di rendere onore all’uomo che è stato: perché, prima di ogni cosa, Livatino è stato un uomo fatto di carne ed ossa, con i propri sentimenti, le proprie ambizioni, le proprie paure. Un uomo che è andato avanti sino alla fine dei propri giorni a testa alta e che adesso merita di essere ricordato e celebrato.

Giovanni Dato -ilmegafono.org