Il 19 luglio di 27 anni fa, con l’aria ancora impregnata di fumo e di morte, Antonino Caponnetto, visibilmente scosso, a un cronista che provava ad intervistarlo in via D’Amelio disse questa frase: “È finito tutto”. Fu un colpo al cuore, un pugno alla speranza già duramente provata dallo scoramento, dal dolore, dalla rabbia. Rita Borsellino anni dopo raccontò come Caponnetto, uno dei migliori magistrati che l’Italia abbia avuto, si pentì di quella frase detta in un momento di sconforto. Eppure, in parte, egli aveva ragione, perché sapeva, dall’alto della sua lunga esperienza, che quell’antimafia forte, efficace, intelligente, acuta non sarebbe più esistita. Certo, ci sarebbe stato altro, ci sarebbero stati validi magistrati, investigatori, forze di polizia capaci di reagire, arrestare boss e affiliati, intercettare traffici, sventare attentati, ricostruire dinamiche, rintracciare infiltrazioni. Ma quella stagione di lotta, caratterizzata da quella altissima qualità professionale e umana, non sarebbe più tornata. Una stagione infernale, durissima, con nemici dalle molteplici fisionomie.

Ecco perché oggi è ancora più importante ricordare e farlo senza sterilizzare il ricordo, ma attualizzarlo, riempirlo di memoria attiva. Perché non servono le commemorazioni, se lasciano svanire proprio la memoria, se la annacquano non raccontando ad esempio che Falcone e Borsellino furono odiati, colpiti, detestati da buona parte di questo Paese. Non erano due eroi amati, ma due magistrati che facevano il loro dovere e per questo si trovavano addosso il fuoco, amico e nemico, dei disonesti, degli invidiosi, dei corrotti. E poi quello funesto dell’isolamento, del tradimento, delle bombe. Raccontarlo oggi significherebbe fare memoria, indipendentemente dal fatto che si possa arrivare alla verità. Purtroppo però, al di là dell’impegno dei singoli e delle associazioni, è difficile fare memoria in un Paese che l’ha sepolta.

La mafia non è più considerata un’urgenza, né nell’immaginario collettivo, quello della cittadinanza, né tanto meno in quello politico. Non c’è più niente, non ci sono proposte, non ci sono misure normative di contrasto, non c’è dibattito né attenzione se non nei giorni degli anniversari, quelli che obbligano ancora la nazione a non dimenticare. Chissà per quanto tempo, però. Perché senza memoria, anche le ricorrenze man mano svaniranno. Eppure la mafia, anzi le mafie, in Italia continuano a essere un’urgenza. Perché controllano i territori, li inquinano, li imbruttiscono, li rendono luoghi invivibili dove gli spazi di tutti vengono limitati per diventare luoghi di controllo, depositi e piazze di spaccio. Intere parti di questo Paese, dalle periferie ai centri storici di molte città, sono sottoposte al dominio delle mafie. Se le sai riconoscere le puoi vedere in tutte le loro forme. Non solo quelle camuffate da camicie e cravatte, ma anche quelle più visibili nelle loro manifestazioni di arroganza. Di prepotenza spicciola.

Come ad esempio sfrecciare con moto e auto, possibilmente dopo una striscia di cocaina presa dal proprio rifornimento personale, in mezzo alle vie di un paesino o di una città. Senza che qualcuno osi fermarli, senza che qualcuno li tenga d’occhio. Fino a quando ci scappa il morto. In un omicidio stradale come a Vittoria, così come in una rissa o una rapina o un’aggressione. E allora tutti a struggersi, a piangere, a chiedere silenzio. Perché è stato solo un incidente e poteva esserci qualsiasi cocainomane alla guida, possibilmente straniero così “tu che sei buonista poi stai muto”. E a chi si permette di portare il discorso più a fondo dei rutti e degli slogan del fanatismo politico, per far notare che forse non è solo l’esito tragico il problema, ma tutto ciò che viene prima e che rende evitabili certe tragedie, si riservano insulti, accuse, minacce. C’è chi si lamenta persino se osi definire la mafia “terribile”, probabilmente perché per qualcuno non lo è o magari crede che esista anche la mafia buona, quella romantica che ti strozza con i guanti di seta.

Oppure c’è chi, usando la parola “angeli” di continuo in riferimento alle due giovanissime vittime di Vittoria, ti accusa di voler strumentalizzare il dolore a fini politici o di voler infangare un intero territorio. Tu sei cattivo, sei giornalista, vuoi fare lo scoop pure se stai solo esprimendo un’opinione in uno spazio gratuito. E continuano a chiederti di fare silenzio. Un silenzio che al limite potrebbe chiedere solo la famiglia, quella che invece ha parlato, dicendo che a Vittoria non ci vogliono più stare, a dimostrazione che il problema è molto più ampio dell’esito, dell’omicidio stradale. Non è solo un incidente. Perché avviene in un territorio nel quale la mafia comanda, gestisce gli affari, il settore ortofrutticolo, l’edilizia, i servizi funebri. Controlla perfino una parte dell’immobile che ospita la stazione di polizia, per la quale il ministero dell’Interno paga l’affitto.

La mafia a Vittoria controlla, minaccia, domina. Lo vedi nel video in cui l’assassino scende dalla Jeep: si allontana a piedi, senza fretta, mentre la gente si dispera ma non osa minimamente fermare il fuggitivo, intimargli lo stop e attendere l’arrivo di una volante. No, fa troppa paura, perché si sa chi è quell’uomo. Ed è meglio farsi i fatti propri. “Ma erano scioccati”, ti dicono. Probabile, ma non giustifica il fatto di aver lasciato andare un assassino. Probabilmente se fosse stato uno qualunque, sarebbe stato accerchiato e fermato. O dobbiamo credere che a Vittoria, un tempo patria di rivendicazioni e di lotte sindacali, non esistano persone capaci di coraggio? Ci sono, eccome. Si battono contro lo sfruttamento nelle campagne, contro gli stupri, contro la mafia. Giornalisti, sindacalisti, sacerdoti. Vittoria non è morta, ma deve reagire. Deve liberarsi dal cappio mafioso e aprire gli occhi. Come deve aprirli il Paese, che continua a credere che la sicurezza sia un problema legato a qualche disperato.

Deve aprirli soprattutto chi in questi anni ha taciuto, consentendo che si diffondesse una cultura lontanissima dall’idea che la mafia sia qualcosa contro cui combattere quotidianamente. Una cultura che si esprime nel comportamento di chi urla addosso ai giornalisti, ai cronisti che provano a raccontare un contesto e a denunciarne le storture, per mettere a nudo il vuoto di chi dovrebbe governare un Paese e non trasformarlo in un nocivo contenitore di odio e propaganda. Il popolo italiano, che spesso si scatena sul web, sembra avere un problema profondo, strutturale, antropologico. Anche rispetto al tema della lotta alle mafie. Sembra che gli italiani, in modo più o meno indiretto, più o meno consapevole, la mafia non la considerino più un problema, un fastidio. La accettano, la ritengono parte della nostra storia, la vedono quasi come un romanzo di costume, letto più volte, un meccanismo conosciuto, una certezza.

Per qualcuno al massimo, può essere un nemico, ma così conosciuto al punto che ci è affezionati e quindi in qualche modo lo si preferisce a quelli meno noti, anche se non esistono e sono solo percepiti. Una collettiva sindrome di Stoccolma, che finisce per far urlare contro tutti: contro i giornalisti, i magistrati, le associazioni ma mai contro i mafiosi e i loro complici. Ecco perché credo che in fondo, una parte di questo Paese, la mafia se la meriti. Ed ecco perché oggi, che è il 19 luglio, con grandissimo dolore viene da pensare che Caponnetto, nella sua risposta istintiva, aveva detto la verità. Aveva ragione.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org