Un atto clamoroso deve, per definizione, suscitare clamore. Nell’odierna società mediatica, attivisti di diverse tendenze hanno spesso preso di mira obiettivi sensibili più per conquistare spazio sui mezzi d’informazione che per le ricadute concrete dei loro gesti a vantaggio della causa sostenuta. Il jihadismo radicale, quando stava scomparendo dai media internazionali, escogitò la tecnica criminale di colpire i turisti occidentali, ben sapendo che in quel modo avrebbe fatto parlare di sé. Sul Mar Rosso, lungo il Nilo, a Bali, in Tunisia sono stati centinaia i turisti trucidati da gruppi terroristici che puntavano a diffondere le loro folli idee comparendo nelle trasmissioni televisive di tutto il mondo. Dal punto di vista della sicurezza la reazione è stata fulminea. Nei Paesi a rischio, i distretti turistici sono stati chiusi in una morsa militare. Laddove ciò era impossibile – ad esempio in Francia o Belgio, colpiti da attentati indiscriminati contro i passanti – a riportare una relativa sicurezza sono stati da una parte l’intelligence e dall’altra l’indebolimento dei mandanti. Da quando non prende più di mira l’Occidente o gli occidentali nel mondo, il jihadismo armato è, di fatto, nuovamente scomparso dagli schermi.

Negli ultimi anni la strada del gesto clamoroso è stata percorsa anche da alcuni movimenti ambientalisti. Nulla a che vedere col terrorismo, è ovvio, né nei mezzi né nella causa, che è sicuramente nobile. Ma le tecniche, per quanto pacifiche, seguono lo stesso copione: colpire in modo da bucare lo schermo e far parlare di sé. Il lancio di zuppe e altre cibarie contro i quadri di artisti famosi e i blocchi stradali di Last Generation sono oggi in primo piano. Dal punto di vista della sicurezza, i musei poco potranno fare oltre a proteggere con vetri infrangibili le opere d’arte; e lo stesso vale per la polizia stradale. Ma dal punto di vista degli attivisti, quali sono i risultati ottenuti? Di sicuro, non che i media si occupino di più delle gigantesche mancanze della politica nella risposta al cambiamento climatico. Il cittadino che assiste di persona alle azioni nei musei è inorridito, quello che è vittima dei blocchi stradali esasperato, e chi guarda in televisione ne condivide i sentimenti.

Il salto di qualità, si fa per dire, rispetto alla protesta di Greta Thunberg, che manifestava in silenzio davanti al Parlamento svedese, è notevole. Si è passati da una lotta che suscitava interrogativi in chi ne veniva a conoscenza, avvicinava una generazione alle questioni ambientali e smuoveva la coscienza sporca della politica, alla simulazione del vandalismo. Il crescendo di azioni di guerriglia culturale e l’idea di fare pagare ai pendolari le colpe dell’umanità sta andando a detrimento della causa che si vuole promuovere. Manifestare davanti alle trivelle o sotto la sede di una compagnia petrolifera non ha la stessa eco mediatica dell’imbrattare un’opera di Van Gogh. Ma nel primo caso il gesto potrebbe generare condivisione e far riflettere, nel secondo finisce con il generare solo rifiuto. Quando si blocca una tangenziale all’ora di punta, le reazioni sono di indignazione e talvolta rasentano la violenza, perché si fa pagare un prezzo non al sistema bensì al singolo lavoratore, al pendolare che già quotidianamente sta in coda nel traffico.

Su questo dovrebbero riflettere i giovani aderenti ai movimenti che spettacolarizzano la battaglia per l’ambiente. Quando una modalità di lotta va a discapito di altre persone o colpisce i simboli di una cultura, quella lotta è perdente in partenza. E chi si batte sul campo contro i guasti del cambiamento climatico, contro il land grabbing, contro lo strapotere delle lobby energetiche non merita di finire nel pentolone della prossima zuppa che sarà lanciata contro un quadro.

Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org