È commovente il grande moto di solidarietà degli italiani nei confronti dei profughi ucraini. In ogni città si stanno raccogliendo beni di prima necessità da mandare in Ucraina per aiutare le persone intrappolate nel conflitto e stritolate dalla fame che deriva dallo stato di assedio. Ma non solo: oltre all’aiuto materiale “a casa loro”, una casa distrutta e pericolosa, ci si sta organizzando con grande zelo per l’accoglienza qui in Italia di chi è riuscito a scappare dalle bombe. Associazioni, reti civiche, semplici cittadini, istituzioni stanno raccogliendo adesioni per trovare alloggi sfitti o per ospitare nelle proprie abitazioni i profughi. Una corsa contro il tempo, un attivismo frenetico, che necessita anche di sostegno legale per espletare le pratiche burocratiche per il soggiorno regolare nel nostro Paese, dal momento che gli ucraini sono extracomunitari.

Il ministero dell’Interno, poi, attraverso le prefetture, ha iniziato a censire i beni confiscati alle mafie, per destinarli all’accoglienza dei quasi 40mila ucraini arrivati in Italia. Molti comuni hanno già aderito e stanno lavorando in tal senso. Una grande macchina della solidarietà, uno sforzo encomiabile, decisamente più nobile di quello legato all’invio di armi in Ucraina disposto dal governo Draghi. Davanti a tutta questa solidarietà, struggente e necessaria verso chi ha dovuto lasciare tutto, c’è però qualcosa che non torna. Una sbavatura, un graffio su quella immagine stereotipata dell’Italia come Paese dal cuore grande, nazione accogliente, popolata da “brava gente”. Una stonatura che si percepisce dentro il coro di amore, empatia e solidarietà che si può ascoltare in queste settimane nei confronti del dolore del popolo ucraino.

È la nostra storia, almeno quella degli ultimi decenni, a riportare evidenti dissonanze sullo spartito del presente. È il contrasto doloroso con i silenzi, l’indifferenza, le chiusure, il feroce egoismo verso altre vittime di altre guerre, di altre violenze. Persone verso le quali la gran parte dei cittadini e delle istituzioni del nostro Paese non ha mai aperto le braccia. Esseri umani fuggiti da orrori altrettanto atroci, gente che ha perso casa, famiglie, affetti, tutto e che è stata trattata con cattiveria, con ostilità. Esseri umani gettati nel tritacarne della politica e della contesa elettorale, respinti o ricacciati nuovamente in altri inferni, nel pentolone bollente della burocrazia, delle ingiustizie, dello schiavismo. D’accordo, l’Ucraina è alle porte orientali dell’Europa, come lo erano i Balcani e l’Albania, i mass media ce ne parlano ogni giorno, ci portano la guerra dentro casa e ci fanno sentire coinvolti, stimolando i nostri migliori sentimenti verso chi quella guerra la vive davvero.

Dicono sia umano, sia normale. Dicono che i conflitti che, ad esempio, coinvolgono o hanno coinvolto alcune zone dell’Africa, dell’Asia o del Medio Oriente sono lontani, non li conosciamo, non ci vengono raccontati, non ne vediamo gli effetti. Può darsi sia così, ma non è una giustificazione accettabile. Perché soprattutto in questi ultimi venti anni, di guerre ne abbiamo viste tante, con la possibilità di misurarne da vicino gli effetti, le conseguenze. L’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, solo per citare quelle più note e mediaticamente narrate, sono nazioni dilaniate da conflitti che potevano assumere dimensioni mondiali. La Siria, poi, è stata centrale e ha visto impegnate, in modo vario, le potenze che oggi sono sull’orlo della guerra planetaria. Di questi scenari drammatici abbiamo visto le immagini e le ferite, il dolore di chi moriva scappando, i bambini profughi con il volto riverso sulle onde. Abbiamo visto e sentito raccontare il dolore e il sangue di coloro che sono fuggiti.

Eppure non si è attivato quello sforzo che oggi vediamo. Come non si è attivato per chi si trova in Libia e subisce stupri, torture, lutti e arriva qui in cerca di aiuto. A tutti questi profughi, scappati da guerre simili o da orrori altrettanto indicibili o dalla miseria di terre derubate e affamate dalle grandi potenze e dalle lobby che le nutrono, abbiamo chiuso la porta e i porti, negato gli approdi, reso impossibile un alloggio, rifiutato ampiamente l’asilo o la protezione. A loro, extracomunitari come gli ucraini, abbiamo offerto solo le corde strette di una burocrazia che punta a negare anche ciò che è dovuto e che, come un sovrano vigliacco e dispettoso, gioca con le vite altrui scegliendo in modo arbitrario di alzare o abbassare il pollice per decretare il tuo diritto ad avere o meno un pezzo di carta che significa poter sopravvivere. A loro non abbiamo dato le nostre case, perché li abbiamo etichettati come pericolosi, delinquenti, potenziali terroristi. A loro non abbiamo concesso i beni confiscati per poter essere accolti con le loro famiglie.

Li abbiamo lasciati per mesi a dormire nelle stazioni (qualcuno ricorda cosa accadde a Milano ai profughi siriani?), al freddo, aiutati solo da associazioni e persone caritatevoli e da qualche amministratore più sensibile. A loro le ferite della guerra e dei tanti orrori non le abbiamo curate, ma anzi ci abbiamo buttato sopra il sale dell’indifferenza. A loro non abbiamo dato ascolto e futuro. Li abbiamo condannati alla prigionia in lager come Lampedusa, Mineo, Cassibile e tanti altri, oppure alla schiavitù, all’emarginazione, alle baraccopoli come San Ferdinando, la Rognetta, Borgo Mezzanone, ancora Cassibile, la ex Calcestruzzi Selinunte, e tante altre. Perché questo diverso trattamento? Può bastare la giustificazione dei conflitti lontani? No, non può.

Non giriamoci attorno. Al netto del cuore di tante persone oneste che la solidarietà la esercitano quotidianamente verso tutti, c’è una grande fetta di questo Paese che, nell’apertura agli ucraini, manifesta un (consapevole o inconsapevole) razzismo. Gli ucraini sono bianchi, cristiani e sono percepiti come europei. Sono ritenuti tutti brave persone tout court, sono soprattutto donne o famiglie con bambini. Gli altri profughi, invece, molto spesso sono neri o olivastri e, anche quando sono famiglie con bambini, rimangono neri e olivastri, possibilmente di religione musulmana, e sono percepiti negativamente per una logica profondamente razzista. Non sono europei, anche se vivono all’occidentale. Quindi a loro nessuna casa, nessun alloggio, nessun bene confiscato.

La speranza è che gli ucraini trovino tutta l’accoglienza necessaria. Un’altra speranza (forse vana) è che gli italiani sfruttino questa occasione per guardarsi allo specchio e accogliere il loro razzismo, senza aggiungere alcun “ma” di alleggerimento. Solo accettandosi per quello che si è realmente, al di fuori del brusio irritante della retorica, si potrà usare questo momento per accorgersi delle proprie colpe, comprendere per quanto tempo si è agito in modo disumano e sbagliato verso altre persone. E magari comprenderlo non solo come cittadini, ma anche come Paese, costringendo istituzioni e politica a cestinare il macabro gioco di usare gli ultimi della terra per le loro dinamiche di potere e per i loro squallidi profitti elettorali.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org