Massimiliano Carbone è una delle tante vittime innocenti di mafia, le cui vicende, purtroppo, sono meno conosciute. Era un trentenne calabrese, precisamente di Locri, una zona tristemente nota per la forte egemonia mafiosa che la caratterizza. Il 17 settembre del 2004, tornando dalla sua abituale partita di calcetto del venerdì sera, Massimiliano fu raggiunto, davanti al portone di casa, da colpi di arma da fuoco e morì, pochi giorni dopo, in ospedale, nonostante l’impegno dei medici e le preghiere e le speranze di quanti lo amavano. Ad oggi non esiste una realtà giudiziaria cristallizzata, l’omicidio risulta essere ancora irrisolto ed i mandati e gli assassini sono ancora ignoti, eppure, secondo quanto racconta Liliana Esposito, la mamma di Massimiliano, che da ormai 18 anni lotta per ottenere giustizia, a Locri molti sanno cosa si cela dietro l’ingiusta morte del figlio.

Sembrerebbe che Massimiliano sia morto perché colpevole di amore; amore per una donna “sbagliata”, amore per un figlio illegittimo. Secondo quanto rivelato agli inquirenti, nel 2017, dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta, Massimiliano fu ucciso perché “aveva avuto una relazione con una donna che interessava ai Cordì”, locale clan di ‘ndrangheta. Una relazione che era iniziata diversi anni prima, nel 1998, con una donna sposata e che era costata a Massimiliano anche una aggressione da parte del marito. La donna, durante la relazione, rimase incinta ma, dopo aver inizialmente confidato a Massimiliano che il figlio che portava in grembo era suo, cambiò parere e smentì categoricamente quella paternità. La relazione tra i due si chiuse, ma Massimiliano continuava a seguire da lontano quello che considerava il suo bambino.

Probabilmente questa premura, questo “istinto paterno” gli sono costati la vita, eppure l’ultima frase che Massimiliano ha detto alla madre prima di morire in ospedale è stata per il piccolo: “Prenditi cura di mio figlio”. E la madre, con la forza che contraddistingue i giusti, con tutto l’amore che solo un genitore può provare, nonostante il gravissimo lutto che le ha sconvolto la vita, da oltre 18 anni lotta perché si faccia luce sull’intera vicenda per dare giustizia a suo figlio e per proteggere anche il bimbo che lui non ha mai potuto amare alla luce del sole. Una paternità che, è bene precisarlo, è stata provata tramite esame del DNA dopo la morte del giovane. Malgrado ciò, secondo i racconti di Liliana, le indagini sull’omicidio del figlio sono state molto lacunose ed hanno portato all’archiviazione del caso già nell’ottobre del 2007. Negli anni, la donna ha tentato ogni forma di denuncia, si reca nelle scuole o nelle varie manifestazioni a cui viene invitata a partecipare per raccontare la storia del figlio, nel 2019 ha persino scritto al prefetto di Reggio Calabria, Massimo Mariani, per comunicargli la propria intenzione di rinuncia al diritto di voto.

“Dopo 15 anni di inefficienza investigativa – ha scritto la signora Esposito nella sua missiva a Mariani- sento sacrosanto il diritto alla indignazione e provo sfiducia nelle istituzioni che non hanno confermato sicurezza a questo territorio”. “Quando non c’è un colpevole – continua la lettera – siamo tutti colpevoli”. Nonostante ad oggi la sua lotta non abbia portato ad alcun progresso nelle vicende giudiziarie riguardanti l’omicidio di Massimiliano, Liliana non smette di lottare e parteciperà, il prossimo 21 marzo, alla manifestazione presso il Convento dei Domenicani di Placanica  in occasione della giornata del ricordo.  “Il ricordo – ha dichiarato la signora Esposito – è fatto dai tanti momenti che costruiscono il mosaico della memoria, che io costruisco giorno per giorno”. “Per questo – ha aggiunto – mi dà conforto, fierezza, forza e vitalità l’invito a presenziare e rendere la mia testimonianza che mi è stato rivolto da questi giovani che operano quotidianamente per migliorare la realtà sociale”.

Un mosaico della memoria che non può certamente essere sufficiente, non è equiparabile al perseguimento della giustizia, ma è indispensabile ad assicurarci che prima o poi qualcosa cambi. È necessario che le persone conoscano queste storie, che sappiano quante tristi vicende di vittime innocenti di mafia addolorino la nostra terra, che capiscano che le mafie non sono un problema degli altri, qualcosa di cui non preoccuparsi, perché in realtà basta poco, uno sguardo sbagliato, un amore ingenuo, persino semplicemente essere bravi nel proprio lavoro per innescare una serie di sfortunati avvenimenti che portino alla nostra morte. Tutto ciò non è più accettabile. Occorre una maggiore consapevolezza sociale, un maggiore sdegno sociale, un secco no all’omertà ed alla logica mafiosa. In uno stato civile non si può morire perché si è colpevoli di amore.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org