Era il 2006. L’11 febbraio per l’esattezza. Erano gli ultimi mesi del governo Berlusconi bis, che alle elezioni di aprile avrebbe lasciato il posto, per una manciata di voti, a Romano Prodi e alla sua nuova (e poco fortunata) esperienza di governo. Era il 2006, l’anno della vittoria italiana ai mondiali di calcio in Germania, l’anno della cattura di Bernardo Provenzano. In Italia, non c’era ancora Facebook, i social, per come li intendiamo oggi, erano un’idea lontana. Un piccolo gruppo di ragazze e ragazzi di una città di provincia del sud, però, nel web vedevano già una possibilità, quella di prendersi uno spazio di discussione e di espressione che andasse oltre le questioni e le dinamiche locali. Una serie di riunioni, un sito confezionato in modo graficamente artigianale, il primo numero pubblicato appunto l’11 febbraio 2006.

Lo abbiamo scritto e raccontato in diverse occasioni, ogni volta che abbiamo celebrato il nostro compleanno. Superfluo ricordare ancora il cammino, il gruppo che si assottiglia, la decisione quasi presa di chiudere tutto dopo un anno, l’ingresso salvifico di altre ragazze e ragazzi di tutta Italia, di giornalisti e aspiranti tali, e poi la collaborazione con le etichette indipendenti, le grafiche e i template nuovi, la nascita dell’associazione. Oggi che festeggiamo il nostro sedicesimo compleanno e, di fatto, il diciassettesimo anno di attività e impegno, non vogliamo raccontarci nuovamente.

Preferiamo piuttosto porci alcune domande: che senso ha oggi scrivere su uno spazio come questo? Che senso ha rifiutarsi di seguire delle regole ormai diffuse, sia politiche e culturali sia di comunicazione? Che senso ha continuare a proporre chiavi di lettura alternative, generare dubbi, promuovere la musica indipendente, i tanti talenti sparsi nel nostro Paese che non riescono spesso a giungere nel mercato che conta? Soprattutto, uno spazio che non investe denaro ma tempo e umanità, che non segue i criteri tipici di un sito di successo (articoli brevi e ottimizzati in chiave SEO, in barba all’approfondimento), perché deve ancora esistere? Ce lo chiediamo molto spesso, tutte le volte che la fatica ci spinge a lasciarci solleticare dall’idea di mollare, di chiudere e recuperare un po’ di tempo di vita. Ce lo chiediamo ogni volta che ci promettiamo di fare il salto, di crescere ancora, magari mettendoci qualche risorsa economica in più, ma poi dimentichiamo di farlo.

Le risposte a queste domande, ciascuno le trova dentro sé, nelle proprie idee e nella tensione dei propri ideali. Ma alla fine, la risposta, in sintesi, rimane sempre la stessa. Se scorriamo questi 16 anni ci accorgiamo che, seppur con forme diverse, le ingiustizie, le discriminazioni, le emarginazioni, le violazioni dei diritti e del buon senso, le mire sporche delle mafie, le minacce del potere contro l’ambiente e contro chi lotta dalla parte dei giusti sono rimaste immutate. Così come sono rimasti invariati i vizi della politica, quella italiana, ma anche quella europea. Siamo sempre nella stessa palude, dalla quale crediamo si possa uscire solo con la cultura e la giustizia sociale e mantenendo la memoria in esercizio attivo. Non dimenticare, essere vigili e sottolineare con rigore etico le reiterazioni funeste.

Scrivere è liberatorio, non perché fornisce uno sfogo, ma perché libera una speranza, quella di incontrare la testa e l’anima degli altri, di sconosciuti che possano leggere e riflettere, fermarsi a pensare e poi criticare costruttivamente per generare un’idea nuova. Questa è l’utopia di chi si affida alla parola scritta, la nostra utopia, che sia dentro un articolo o che sia accoppiata all’immagine di una vignetta. La stessa utopia di chi fa musica nelle cantine e nelle sale prove e, attraverso un’etichetta indipendente o autopromuovendosi, spera che ciò che vuole esprimere, il proprio talento ma anche la propria visione del mondo e della musica, arrivi a qualcuno, incontri una testa e un’anima. E magari anche un cuore. Esserci, scrivere, raccontare, sia notizie fornite di prima mano o inchieste, sia commentando criticamente un fatto avvenuto, significa liberare una speranza e custodire la memoria, dentro un Paese ingoiato dalla disillusione e dall’abitudine a rimuovere. Un Paese nel quale i ribelli muoiono in silenzio, mentre i cialtroni e i millantatori si spacciano per eroi, si drogano di ideologie, si presentano a favore di telecamera come alfieri di una libertà che non hanno mai difeso.

Liberare una speranza significa anche provare a fare la propria parte per dare un pizzico della propria voce e del proprio spazio a chi quella voce non ce l’ha o è costretto a tenerla bassa. Sono gli ultimi, sono i dimenticati, sono quelli i cui diritti e la cui dignità sono diventati merce di scambio, vittime sacrificali nella guerra del profitto e del consenso politico. Non sarà una voce minuscola e di nicchia a cambiare le cose e il mondo, certo, non saranno un gruppetto di giornaliste e giornalisti, cittadini, attivisti a restituire giustizia a chi ha subito dolore. Ma quella voce ha il dovere di ascoltarlo quel dolore, di dargli voce. Ha il dovere di esserci, di farsi ascoltare, di liberare una speranza, infilarla dentro una bottiglia da affidare al mare quotidiano, consapevole che sicuramente ci saranno una, cento, mille persone alle quali quella speranza darà certezze, spiegazioni plausibili, convinzioni nuove, conforto.

O semplicemente riuscirà ad aprire una breccia dentro la mente e il cuore, generando bellezza e umanità, cambiando la prospettiva riguardo al mondo e a ciò che ne disegna le dinamiche e le posizioni. Ecco perché, rispondendo alla domanda descritta poc’anzi, alla fine, nonostante tutto, la risposta è una sola, sempre uguale: bisogna andare avanti, perché continuare ha senso. Anche e soprattutto in uno spazio come questo. Da 16 anni e, chissà, magari per altri 16. E ancora oltre.

Redazione -ilmegafono.org