In questo Paese, indipendentemente dalla famelica narrazione sul Covid, per sperare che la violazione dei diritti di un lavoratore straniero faccia notizia, deve scapparci il morto. Se qualcuno decide di fare un agguato verso dei braccianti stranieri, se decide di sparare addosso a dei lavoratori con la pelle nera, c’è bisogno di un morto, di un proiettile andato a segno in modo letale affinché questo Paese si accorga del degrado morale, del razzismo, della violenza che si compiono nei confronti dei migranti. Ci stiamo avvicinando al Primo Maggio e alla giornata nella quale risuoneranno le parole istituzionali, quelle del governo e dei sindacati, che celebreranno il giorno del lavoro, la giornata dei lavoratori. Proprio così, lavoratori, come lo sono i braccianti, quelli che, a schiena curva e per una paga spesso insufficiente, in nero o con contratti fasulli, raccolgono i prodotti che finiscono sulla nostra tavola, quelli con il marchio made in Italy.

Un marchio che non racconta la verità, perché di italiano c’è solo il luogo di produzione, ci sono solo le terre e la spirale di sfruttamento selvaggio che le riempie, ci sono i padroni, ma poi in quel marchio andrebbero aggiunte tante altre bandiere: Senegal, Gambia, Sudan, Tunisia, Costa d’Avorio, Romania, Polonia, Marocco, Ciad e tante altre ancora. Andrebbero aggiunte le bandiere di tutti quei lavoratori che hanno sopperito alla carenza di manodopera italiana. sempre meno disposta a lavorare in campagna, specialmente per le mansioni più dure. Le raccolte dei prodotti della terra sono pertanto affidate alle braccia e alle mani di migliaia di lavoratori stranieri che, da nord a sud, si spostano seguendo i flussi stagionali di lavoro.

Flussi che toccano almeno 80 aree del Paese, attraversate da fenomeni che ci riportano indietro nel tempo e che sono lo specchio di quella che è l’Italia attuale, dove il diritto e le lotte sindacali, in agricoltura, sono solo un lontano ricordo. I flussi di lavoratori toccano le zone rurali, spesso centri urbani o province che, nonostante i tanti anni di presenza di questo fenomeno, non hanno mai organizzato un’accoglienza, né creato le condizioni per eliminare sfruttamento e caporalato. Foggia è una delle aree peggiori, la più violenta, stando ai fatti di cronaca e ai racconti dei tanti braccianti che l’hanno vissuta e conosciuta e che hanno girato il Paese. A Foggia gli incidenti mortali che due anni e mezzo fa hanno coinvolto i furgoncini dei caporali stipati di braccianti, uccidendo quasi una ventina di lavoratori in pochi giorni, non hanno determinato nient’altro che parole di circostanza, quasi sempre usate in modo che la colpa, in qualche maniera, fosse dei braccianti stessi che si lasciano sfruttare e non di chi consente che questo sfruttamento prosegua indisturbato.

Qualche giorno fa, a Foggia, in 48 ore si sono succeduti due episodi gravissimi. A Torretta Antonacci, una località nei dintorni della città pugliese, nella notte tra il 23 e il 24 aprile, alcuni delinquenti hanno attaccato a colpi d’arma da fuoco l’insediamento di fortuna che ospita i braccianti stranieri. Uno di loro è stato acciuffato dagli attivisti della Lega braccianti e consegnato alle forze dell’ordine. Dopo 48 ore, da un’auto in corsa, ignoti hanno sparato ad altezza d’uomo sui braccianti che rientravano nel campo, ferendo seriamente due di loro, uno dei quali colpito al volto.

Una caccia, un raid vigliacco che ci riporta al 1989, a quella dannata notte di fine agosto nella quale, a Villa Literno, venne ucciso Jerry Masslo, attivista e rifugiato sudafricano.  La reazione a quel raid fu forte, in Italia si iniziò a parlare degli sfruttati nelle campagne, del razzismo crescente, pochi mesi dopo venne organizzata una grande manifestazione con centinaia di migliaia di persone, il governo dovette legiferare per dotarsi di una normativa organica che si occupasse di immigrazione e non rimandasse ancora al Testo Unico di periodo fascista. Ci fu una reazione commossa anche per via della storia personale di Masslo.

L’agguato di Foggia, invece, non ha prodotto nulla. Nemmeno una prima pagina, né una parola di condanna dalle istituzioni nazionali. Solo qualche sigla sindacale e qualche attivista ne hanno parlato. L’Italia praticamente nemmeno si è accorta di quanto è accaduto. Forse aveva bisogno del morto per iniziare a piangere, ammesso che abbia ancora lacrime di rabbia e dolore davanti a diritti che vengono calpestati quotidianamente. Il dubbio è che magari non sarebbe cambiato nulla ugualmente e che, anche nel caso quei proiettili avessero spezzato la vita di un bracciante, la reazione del Paese non ci sarebbe stata. Né tantomeno quella di un governo lontanissimo dall’interesse per gli ultimi, per gli sfruttati, per i diritti del lavoro.

Foggia è un inferno quotidiano, uno di quelli nei quali peraltro esiste un rapporto solido tra impresa agricola, caporalato e mafia, e d’altra parte non ci sarebbe bisogno di aspettare la cronaca per saperlo e per pensare di intervenire. E non c’è solo Foggia, ci sono tante altre zone nelle quali la violenza si compie approfittando del bisogno e della paura, leccandosi le dita davanti alla condizione di subalternità di chi fa fatica a denunciare e ad ottenere giustizia. Una violenza diffusa, razzista e bianca, che è il segno di un Paese precipitato nel baratro di una indifferenza inedita. E che nessun Primo Maggio, che rimane un momento serio e importante, sarà capace di risanare e riportare in cima, se continuerà a tradursi nella lotta di un solo giorno e nell’esibizione di bandierine e parole roboanti e inutili.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org