È accaduto ancora una volta. Un’altra ferita dentro un mondo che definire dell’antimafia sarebbe un errore, perché l’antimafia è altra cosa, è cosa seria. Antimafia è lotta quotidiana, spesso silenziosa, fatta di sacrificio, impegno, lavoro, dedizione. Non per la vanità personale ma per rispondere a un ideale di giustizia, a una esigenza di verità, alla necessità di riconquistare spazi di libertà. Mario De Michele non c’entra nulla con l’antimafia, né con il giornalismo che cerca verità. Perché la sua verità se l’era costruita da solo, mettendo in scena, a quanto pare, due attentati alla sua persona. Due agguati con tanto di colpi di pistola, denunce, indagini e il solito tam tam di interviste, ospitate tv, iniziative di solidarietà. Tutto finto.

Mario De Michele, direttore della testata online “Campania Notizie”, ha confuso la verità con la vanità, si è fatto fagocitare dalla voglia di apparire eroe, avere successo, magari fare carriera attraverso l’etichetta di giornalista antimafia, una etichetta che in questo Paese spesso funziona bene e dispensa premi che vanno ben oltre i propri meriti, il proprio lavoro, le proprie capacità. De Michele è andato oltre, si è lasciato ingolosire superando il limite. A quanto dicono le indagini della magistratura e a quanto lui stesso sembra ammettere nel suo ultimo editoriale (leggi qui) con il quale si è sospeso dalla sua carica di direttore, avrebbe inscenato tutto. Gli spari contro la sua abitazione e contro la sua auto, i due agguati che, a quanto pare, non sono mai esistiti. Un disegno crollato facilmente, sotto la lente di ingrandimento della Dda di Napoli che ha scoperto l’inganno.

Ora l’indagato è lui, giornalista anticamorra che ha bruciato in un attimo sia la sua professione e il connesso rispetto della deontologia, sia l’etichetta sulla quale sperava probabilmente di costruire il proprio futuro recitando una parte che non era la sua. La scorta non l’avrà più e nemmeno una credibilità. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Sono tanti i casi di ex icone, anche più note, della lotta alla mafia che sono finite nella rete delle loro menzogne. Helg, Montante, Campanella e altri protagonisti di una antimafia di facciata che, in questi casi appena citati, era anche più nociva, visto che in realtà serviva a coprire interessi illeciti. De Michele è un caso diverso, perché probabilmente risponde solo a se stesso, al suo ego, alle frustrazioni di un cronista di provincia che, come lui stesso ha scritto, ha perso la testa e il contatto con la realtà e che oggi chiede scusa a carabinieri, magistratura, prefettura.

In fin dei conti, al netto della gravità del suo atto, De Michele è una vittima. Vittima di un sistema che da troppo tempo assegna facili etichette e rapida credibilità a chiunque anteponga al proprio lavoro e alla sua reale efficacia la notizia di una minaccia o di un attentato. Nel caso del giornalismo la cosa è ancora più grave e irritante perché, a fronte di chi cerca le luci della ribalta ottenendo persino protezione, ci sono decine e decine di cronisti di provincia che lavorano seguendo i crismi della corretta professione e lo fanno a proprio rischio e pericolo, senza tutele e senza denunciare al mondo intero le intimidazioni, i danneggiamenti, ma al massimo fermandosi alla denuncia in questura o al comando dei carabinieri, senza renderla di pubblico dominio o farne accenno in tv, su giornali o libri. Il cronista, soprattutto chi fa inchiesta, sa che più cercherà la verità più si troverà ad affrontare certi meccanismi, certe pressioni più o meno gentili.

Quando questo accade non c’è bisogno di aggiungere o pretendere etichette (“antimafia”) che servono solo per avere più ascolto, più visibilità e magari ottenere qualche posto di rilievo nel settore. Non c’è bisogno, perché essere giornalista, se si accompagna alla visione di libertà e indipendenza di chi fa questo mestiere, è più che sufficiente. I veri giornalisti, anche quelli sotto scorta, non parlano volentieri della loro condizione blindata, non parlano ogni due righe delle loro minacce, non parlano ossessivamente delle proprie paure, ma continuano a lavorare come hanno sempre fatto, fin dove e fin quando è possibile.

Il punto è che se non si smette, sia a livello mediatico ed editoriale, sia a livello di associazionismo e movimentismo antimafia, di assegnare più credibilità a un fatto di cronaca autoriferito e farcito di vittimismo ossessivo che all’efficacia di una inchiesta, l’antimafia sarà costretta a lungo a misurarsi con questi bluff. E sarà costretta a difendersi dalle accuse che non dovrebbero riguardarla, visto che, bene ripeterlo, l’antimafia, quella vera, è fatta da donne e uomini che lottano davvero, che insegnano valori, che rischiano ogni giorno in silenzio. Lontani dai riflettori, dal narcisismo e dalle menzogne.

Redazione -ilmegafono.org