Non è bastato lo stupro di gruppo del Foro italico di Palermo, né il feroce omicidio di Giulia Cecchettin e, prima ancora, quello di Giulia Tramontano e di tante altre. Non è servito a nulla il dibattito che ne è scaturito sulla violenza sulle donne, sull’agghiacciante sessismo che inquina il linguaggio e sollecita le menti e i peggiori istinti dei maschi e, in particolar modo, dei più giovani. Siamo nuovamente finiti a raccontare uno stupro, l’ennesimo, in questo caso ai danni di una ragazzina di 13 anni, una bambina, finita nelle mani di un gruppo composto da minorenni e da neomaggiorenni. Questa volta egiziani. Ed è questo il dettaglio che, nella solita bagarre mediatico-politica, ha assunto il rilievo maggiore. Ancora una volta, dunque, si compie l’errore di sviare il discorso, di piegarlo a una bieca etnicizzazione funzionale a chi, da anni, avvelena i pozzi con l’odio razziale e con le semplificazioni.

Un odio fatto di slogan vuoti che servono a drogare ed accrescere il consenso, fra razzismo, soluzioni autoritarie e violente, salotti televisivi che somigliano più a raduni del Ku Klux Klan (chissà se l’Ordine dei giornalisti guarda mai la trasmissione di Nicola Porro su Rete4…). Non vi è alcuno spazio per interrogarsi nuovamente sul male che attanaglia la società che abbiamo costruito e che partorisce questa indicibile violenza, nessuna riflessione sul linguaggio che viene veicolato costantemente in ogni ambito, a partire proprio da quello politico, sull’assenza di strumenti educativi e di mezzi a sostegno di chi, con l’educazione e la formazione, ci lavora ogni giorno. Niente di tutto ciò. Né sul piano politico né su quello della narrazione giornalistica. Dalla castrazione chimica, ossessione di Matteo Salvini, particolarmente attivo quando si tratta di reati compiuti da stranieri, ai servizi televisivi di un giornalismo che si prostra e si mette al servizio dei propri padroni di partito: l’orrore in Italia si arricchisce con altro orrore.

È il segno di un Paese sempre più rozzo, lontanissimo dalle intellettualità che un tempo erano presenti anche in politica e riuscivano a favorire la crescita culturale della popolazione e, in generale, della nazione. Era un’altra epoca, nella quale la comunicazione era una cosa seria, che richiedeva scelte ponderate, misurando le parole e gli interventi sulle questioni che coinvolgevano il popolo. Oggi, invece, è tutto mischiato, gettato dentro il calderone della ricerca spasmodica di consenso, dove gli slogan si rincorrono e il dolore di chi ha subito la violenza viene utilizzato, sfruttato, soprattutto da una parte, per alimentare lo scontro politico. Un copione che si ripete ogni volta, sistematicamente, con le stesse insopportabili sfumature e con il supporto e la complicità di una parte della stampa, che non si sottrae agli orrendi cliché, alle irritanti consuetudini.

Nel caso di Catania, ad esempio, la violenza di un gruppo di giovani egiziani diventa la molla per una raffica di servizi sui musulmani in Italia, sulle comunità di accoglienza, sugli stranieri e sull’immigrazione in generale. Un po’ come se, dopo la violenza del Foro italico a Palermo, avessero puntato tutti il dito contro i palermitani e i siciliani in genere, la loro cultura e i loro modi di considerare le donne. Così, senza distinzioni, come fosse un tratto caratteristico di un popolo. Eppure non è successo, così come non è successo per i casi del figlio di Beppe Grillo e di quello di Ignazio La Russa, sotto inchiesta per violenza sessuale. Insomma, qui in Italia, se lo stupratore è straniero si pretendono le scuse da tutti coloro che vivono nel nostro Paese e provengono dall’estero o hanno origini straniere, si considera il loro atto un elemento tipico della loro cultura. L’equazione oggi è: straniero uguale stupratore. Quando il carnefice, invece, è italiano, al massimo si dà la colpa alla famiglia o alla scuola, dunque a una dimensione ridotta e riconducibile a una sfera più privata, non all’intera nazione o comunità.

In questo modo, attraverso questa semplificazione, si alimenta il virus della violenza, che non viene affrontato e combattuto e può crescere indisturbato, cibandosi di questa incapacità di comprensione delle sue cause. Che sono molteplici e complesse, ma riconoscibili. Lo stupro è una forma sadica di potere e affermazione maschilista, una violenza che punta a sopraffare e annullare l’altro, ne calpesta la dignità, in nome di un istinto feroce, in nome di un odio sprezzante. La cultura c’entra ma non è ascrivibile a un’etnia, bensì alla società nel suo insieme. La destra di questo Paese, dagli esponenti politici ai lacchè con il tesserino da giornalista, oggi si agita buttando in pasto alla politica la violenza sessuale subita da una ragazzina e trasformandola in occasione di conflitto etnico e culturale. In realtà, farebbe meglio a guardarsi dentro. Con ciò non si vuole accusare naturalmente il governo o la politica di avere responsabilità dirette su uno stupro, ma sicuramente di costruire quotidianamente un linguaggio che, in tal senso, determina un contesto di rischio.

Perché se il presidente del Senato interviene, abusando della sua posizione di potere, per screditare e minimizzare la denuncia presentata da una ragazza nei confronti del figliol prodigo, se lo stesso La Russa afferma che Meloni “non è la classica donna” che ha bisogno di un uomo per emergere, se Salvini loda Vannacci e la sua mentalità sessista (e non solo), se per anni si è minimizzato il comportamento becero di Berlusconi, se tutto ciò che riguarda l’oltraggio alle donne viene ridotto a battuta, come spesso abbiamo ascoltato da parte di esponenti di destra (e del governo) e giornalisti fedeli, allora vuol dire che la politica (e questa destra in particolare) ha qualche responsabilità su una società intrisa di machismo e di scarsa considerazione della donna. Tutto ciò, in un mondo nel quale le donne vengono già troppo spesso trattate o definite come oggetti o proprietà di qualcuno, è molto pericoloso.

Sia chiaro, il problema non riguarda solo la politica ma la società nel suo complesso, italiana e non solo, che la politica (ormai orfana di qualsiasi portata educativa e progressista) rispecchia. Perché la scarsa considerazione della donna e la violenza nei suoi confronti è qualcosa che tocca tutti, di qualsiasi etnia e di qualsiasi livello culturale o classe sociale. Filippo Turetta, infatti, non è diverso dai sette stupratori di Palermo, così come Alessandro Impagniatiello non è diverso dal branco di stupratori di Catania. Sono tutti figli del patriarcato, sia che siano più emarginati sia che vivano perfettamente dentro la società. O dentro la politica, i palazzi di governo e le più alte istituzioni della Repubblica.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org