In questa orrenda campagna elettorale, quello che manca non è il tempo, come qualcuno sostiene per crearsi alibi, ma sono i temi. O meglio, gli approfondimenti, quelli concreti, reali, cosa diversa dalle passerelle mediatiche o dai comizi nei quali si agitano le braccia e si alza la voce per provare a riempire la vuota scenografia degli slogan. Cosa diversa anche dai pochi confronti, spesso a distanza, dove il pensiero complessivo si riduce a un “votate per me contro questo” oppure “votate per me perché è utile”. Mai il nostro Paese, che pure ne ha viste di oscenità politiche, soprattutto in questi ultimi 30 anni, ha vissuto un momento così basso. D’altra parte è difficile pensare di alzare il livello, quando i protagonisti della politica, gli aspiranti leader, sono quelli che ci vengono proposti. Da una parte e dall’altra. La favorita numero uno è Giorgia Meloni, che i sondaggi danno come la più votata, insieme al suo partito che, da minuscolo presidio fatto essenzialmente da nostalgici e da qualche ex servitore di Berlusconi (inclusa la leader, ex ministro del Cavaliere), si ritroverebbe, secondo le rilevazioni, a gestire un consenso importante.

Forse troppo rispetto alle capacità e allo spessore della classe dirigente di FdI. Ma tant’è, si organizzeranno. Lo stanno già facendo, acquisendo un po’ ovunque nuovi volti, provenienti da varie esperienze nel mondo del centrodestra. Insomma, per molti, FdI è soprattutto una carrozza comoda per arrivare agevolmente a conquistare uno scranno parlamentare. La prevista vittoria della Meloni, che poi vittoria non sarebbe senza l’alleanza, non comodissima, con Lega e Forza Italia, viene raccontata come uno scenario horror dalle controparti, con il PD, Letta e i giornali più vicini alle loro posizioni che, ogni giorno, annunciano un futuro apocalittico con la leader romana a Palazzo Chigi. Una tattica che, però, non sta portando bene, visto che FdI continua a essere dato in avanzata, mentre il PD al massimo tiene o rosicchia le briciole.

Come mai? Forse perché Letta sta giocando a perdere, riproponendo schemi comunicativi che sono già stati frantumati dalla storia e che non funzionano quando si devono contrastare i sovranisti, soprattutto in un periodo così complesso sul piano economico nazionale e internazionale, oltre che su quello bollente della geopolitica mondiale. Da settimane, da quando è iniziata la campagna elettorale, si pone l’accento sul fascismo, sulle simpatie e sulle nostalgie di Meloni e di alcuni suoi compagni di partito. Si guarda al suo passato, si scannerizzano le sue pulsioni politiche giovanili, si tirano fuori scoop che nulla aggiungono a quanto di già gravissimo è emerso sul suo partito, prima che su di lei, dalle inchieste passate. Si continua a definire Meloni pericolosa per la sua ideologia di riferimento, per la fiamma nel simbolo, per le sue sparate (feroci e inattuabili) sull’immigrazione o sul gender, su Peppa Pig o sui diritti civili. Si cerca, insomma, di combattere con la paura chi da sempre la paura la utilizza scientificamente per costruire consensi. Un terreno che Giorgia Meloni conosce bene e sul quale non bisognerebbe sfidarla.

Soprattutto se, sui temi per i quali la si accusa, non si ha la coscienza totalmente limpida e pulita. Un esempio per tutti: il PD critica giustamente la posizione xenofoba e razzista della leader di FdI, ma dimentica che il governo di cui lo stesso PD è ancora parte, in queste ore ha lasciato morire di fame e di sete delle persone (tra cui due bambini) su un barcone in mezzo al mare, per il solito rimpallo di responsabilità e la solita agghiacciante indifferenza che trova un fondamento nel percorso avviato da Minniti e mai abbandonato dai suoi colleghi di partito. Allora, si capisce che non funziona molto giocare a fare i migliori se migliori non si è fin nel profondo. Detto questo, è chiaro che le parole che la Meloni usa, le idee che esprime, il suo linguaggio sono pericolosi, come lo sono quelli di Salvini. Ma non è su questo che bisogna fare leva, perché ci sarà sempre una controffensiva a ricordare gli identici effetti prodotti su alcune questioni anche senza usare quel linguaggio, mostrando magari delle facce più pulite e apparentemente più umane o democratiche.

Giorgia Meloni, dunque, va colpita per la sua incompetenza, per la totale incapacità di governo sua e del suo partito, che a livello periferico, laddove ha governato, ha spesso regalato indagini, scandali, inchieste, mal governo. Bisogna contestare Meloni per i suoi sproloqui sull’economia, per l’assenza di ricette reali su come risollevare un Paese che si prepara ad affrontare un autunno feroce che, senza una politica matura e responsabile, capace di intervenire tempestivamente, si prefigura caldo e conflittuale. E socialmente tragico. Bisogna colpirla sulla sua idea di politica estera, che è in questo momento decisiva per l’Italia e per il futuro della sua economia e dei suoi cittadini. Bisogna interrogarla sulla natura delle sue relazioni con personaggi discutibili, con gente come Orban, Le Pen, Bannon, con protagonisti dell’antieuropeismo. Meloni è anacronistica, incapace di innovazione politica, culturale, economica, ed è circondata da una classe dirigente che, a parte qualche eccezione, è sotto il livello minimo necessario per un Paese moderno.

In un momento simile, Giorgia Meloni è insomma la ricetta peggiore che il Paese possa ingoiare. Sia chiaro, nessun politico potrà mai portare l’Italia fuori dai crismi della democrazia, ci ha provato qualcuno e non ci è riuscito nonostante il consenso enorme e uno stuolo di complici adulatori. Ma sicuramente, il danno economico e sociale è qualcosa che può avere conseguenze profonde, soprattutto in un momento come questo, difficilissimo, drammatico. Allora, se davvero questo si vuole evitare, bisogna smetterla di cadere nel tranello di offrire all’avversario politico terreni comodi. Meloni spingerà sempre di più su migranti e sicurezza, sugli omosessuali e sui loro diritti, per distrarre e coprire le sue mancanze sui temi che saranno decisivi per un Paese in piena crisi energetica, che paga (e va sottolineato) anche le scelte non proprio sagge in politica estera compiute dal governo dei migliori, di cui facevano parte anche gli alleati di Giorgia Meloni e i suoi avversari.

Avversari che oggi strepitano e parlano di voto utile, ma che hanno rifiutato di fare l’unica cosa utile (lo dicono i numeri) per pensare di battere o arginare le destre: un campo largo con sinistra e Cinque Stelle. Perché, in questa campagna elettorale indecente, c’è anche un’altra cosa difficile da digerire. E cioè: se davvero il rischio di una vittoria della destra è la catastrofe, al punto che per evitarla si implorano gli elettori di turarsi il naso e votare anche chi non piace, perché allora gli stessi fautori del voto utile non si sono spesi per superare le diatribe e le antipatie, turarsi il naso e andare insieme, conquistando un certo numero di seggi utile anche a difendere la Costituzione dalle brame dei fautori del presidenzialismo? La risposta non arriverà, ma la domanda è lecita. Come quelle che nessuno fa a Giorgia Meloni su ciò che davvero sconosce o che la esporrebbe a pessime figure e a emorragie di consenso.

Massimiliano Perna – ilmegafono.org