Il volto di Alì non lo dimenticherò mai. Il suo sguardo stanco e sofferente, per la bronchite che lo ha colpito e per una vita che, a poco più di 30 anni, pesa già come un macigno. Professore di matematica in Somalia, parla un inglese perfetto, mi racconta la sua storia, scuote la testa desolato quando un giovane eritreo accanto a noi mi dice, indicando i rifiuti attorno agli alberi e i materassi adagiati sotto i rami, che per lui va bene vivere anche così, perché è sempre meglio che essere morto, come tutti i suoi familiari. Siamo a Cassibile, quartiere agricolo di Siracusa, anno 2008. Oltre ottanta rifugiati politici, in gran parte somali, nascondono la propria esistenza sotto le fronde lunghe e verdi dei carrubi, in un campo sperduto, raggiungibile soltanto passando in mezzo ai binari della ferrovia. Tutti con un documento in mano, tutti con il diritto ad essere protetti dallo Stato italiano. E quello Stato è a due passi da loro ed ha il volto tetro e sporco di un Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo), una struttura fatiscente, un lager moderno (come risulta da un dossier firmato dall’on. radicale Rita Bernardini) da cui sono stati mandati via una volta ottenuto lo status.

Lasciati al loro destino, senza alcuna informazione sui passi da seguire e sulle pratiche da sbrigare per poter accedere al programma nazionale asilo e godere di un alloggio e di un percorso graduale di formazione ed inserimento lavorativo. Niente soldi per un biglietto, nessuna comunicazione all’Acnur (Alto commissariato Onu per i rifugiati) sulla loro messa alla porta da parte del centro di Cassibile, un centro discusso, finito sotto inchiesta più volte ed oggi finalmente chiuso. Fontane Bianche, località balneare di Siracusa, pochissimi chilometri da Cassibile, anno 2010: davanti a me cinque ragazzi eritrei, anch’essi  in possesso del documento che attesta la loro condizione di rifugiati, affamati e stanchi, infreddoliti dalle notti passate dentro un casolare, a ridosso della spiaggia che in estate si affolla di bagnanti e turisti. Vogliono andare via, ma intanto lavorano nelle campagne, saltuariamente, per una paga da schiavi, sotto la guida di moderni negrieri.

Uno di loro è furioso, ha lo sguardo del leader, il piglio di chi ha provato ad opporsi al regime prima di scappare dal suo paese. Sono stati anch’essi al Cara di Cassibile e poi abbandonati a sé stessi e al loro destino. Sempre in quel periodo, sempre a Cassibile, in una stradina impervia di campagna nascosta agli occhi del mondo c’è l’“hotel Sudan”, un albergo privo di stelle, una catapecchia di mattoni grezzi e di lamiera, senza infissi e circondata da sterpaglie, rottami e rifiuti: lo chiamano così perché è la dimora improvvisata dei rifugiati sudanesi che lavorano nei campi della zona come stagionali per la raccolta di fragole e patate. Said lo incontro lì una mattina, è arrivato il giorno prima da Vittoria (area agricola del ragusano). Ha moglie e figli e una casa. Ma ha perso il lavoro e nei campi di fango, fatica e sangue di Vittoria per il momento “tirano di più” i rumeni. Si è dovuto spostare, con il suo documento in mano, con un foglio che gli garantisce protezione per 5 anni. Ha trovato accoglienza e un letto improvvisato all’hotel Sudan, ma ci resterà poco.

Queste sono solo alcune delle storie di rifugiati che vivono nel nostro Paese, profughi scappati da situazioni infernali, da conflitti, torture, persecuzioni che l’Europa e l’Occidente hanno fatto finta di non vedere per decenni, mentre continuavano a fare affari con i carnefici, con i tanti signori della guerra che assediano l’Africa, scambiando armi e risorse con la vita delle popolazioni, costrette a disintegrarsi, a sfilacciarsi, a far fuggire i più giovani e gli oppositori politici più carismatici. Oggi la Rivoluzione nordafricana ancora in corso e in fase costante di estensione (ora tocca a Siria e Yemen, presto probabilmente all’Iran e, perché no, all’Arabia Saudita) ha obbligato l’Occidente a non voltare più lo sguardo altrove. La storia di quella parte del mondo non sarà più la stessa, in attesa che anche sotto il Sahara e nel corno d’Africa qualcosa cominci a cambiare davvero.

La Libia, la Tunisia, l’Egitto, specchio di un amore per la libertà che in tanti credevano impossibile, viziati dallo snobismo tipico di chi ritiene che certi sentimenti non appartengano ai “non occidentali”, ai “poveri”, ignorando il fatto che l’intellettualità e la dignità non si comprano e che, al contrario, è proprio dove c’è ricchezza che la vera schiavitù e il servilismo si celano miseramente sotto una democrazia di facciata. La guerra, la violenza, l’esplosione di una situazione che per troppi anni è rimasta soffocata sotto la cortina di crudeltà di regimi sanguinari, con il silenzio complice delle potenze mondiali, hanno prodotto il primo effetto tangibile: migliaia di profughi che hanno abbandonato tutto, che hanno scelto di vivere, aggrappati alla speranza di una vita normale, libera, in cui la parola, l’opinione, il lavoro siano frutto di una scelta e siano il seme di un’opportunità futura. Scappano e bussano alle nostre porte. Chiedono quello che per decenni gli italiani (milioni e non qualche migliaio) chiesero a tanti paesi nel mondo: rifugio ed ospitalità, lavoro e vita.

La risposta dell’Italia è lo specchio della sua classe politica: “Non li vogliamo”. Un coro che si è levato dalle diverse regioni, un gioco allo scarica barile che ha per oggetto vite, anime, corpi, cuori, occhi, dignità e speranza: in poche parole esseri umani. “Non li vogliamo”. Un coro differente da quello degli abitanti di Lampedusa, i quali, nel difendere le ragioni di un’isola dimenticata da tutti quotidianamente già prima di divenire approdo di migranti, hanno iniziato a solidarizzare con loro, denunciando le condizioni vergognose in cui vengono fatti vivere dentro il famigerato centro, scendendo per strada al fianco loro lo scorso anno, dopo la protesta dentro il Cpt, fischiando qualche giorno fa il leghista Borghezio e la xenofoba francese Le Pen, in visita sull’isola. “Andate via”, “non siamo razzisti”, urlavano più di cento ragazzi. Il resto d’Italia invece ha imparato un nuovo trucco: adesso il rifugiato è accetto, o quantomeno si può tollerare, ma gli altri no, i “clandestini” vanno respinti, mandati via, guai a portarli nelle varie regioni. Separiamo i “buoni” dai “cattivi”.

Ora si è sparsa come un virus l’idea che “clandestini” di ogni parte del Terzo Mondo si spaccino per libici così da ottenere l’asilo. Che nazione l’Italia, che popolo gli italiani! Hanno bisogno sempre di un capro espiatorio, vanno alla continua ricerca del livello più basso e più debole da colpire e additare come nemico da respingere. Avete mai visto una reazione simile contro un potente (non ancora in declino) o contro un mafioso? Mai. L’Italia dei Fracchia e dei baciaculo ha il vizietto di fare la voce grossa con chi al momento non ne ha. È la sindrome del branco, molto diffusa nel tessuto lercio e viscido della società italiana, che usa persino l’amor di patria nelle forme meno opportune. “Non li vogliamo”, “quelli sono clandestini e non rifugiati e noi i clandestini non li vogliamo, abbiamo già dato”: come se parlassimo di bestiame da distinguere tra i capi con un marchio e quelli selvaggi, come se fossimo in un ufficio postale in cui distinguere la posta prioritaria dalle lettere senza indirizzo da rispedire al mittente.

Uomini, donne, ragazzi e ragazze, eroi del loro tempo, fuggiti facendo leva solo sul proprio coraggio e sulla propria speranza. Hanno reagito per cambiare il proprio Paese, hanno subito la ritorsione dei regimi, hanno sfidato il destino, il mare, la morte per arrivare qui, senza pensare di aver diritto all’asilo o meno, senza curarsi delle sovrastrutture burocratiche piantate sul domani di un’umanità in cammino. E cosa rispondiamo noi a questo eroismo, ai solchi di dolore e dignità che questa gente ha scavato nella terra e nel mare per proseguire nella via della libertà riconquistata? Cosa dice l’Italia dei servi e delle puttane di potere, delle penne supine, dei tronisti, dei trip in discoteca, dello sballo perenne, della pigrizia, dello “sbattiamocene di come va il mondo”?

Dice “non li vogliamo”. Così, semplicemente, con la fermezza partorita dalla superficialità del proprio cervello e del proprio benessere, con quella ostentata ed immotivata irremovibilità che poi si scontra con la bramosia ipocrita di possedere un esercito di schiavi da sfruttare e spremere fino alle ultime forze. Ma fino a quando ancora, gli altri italiani, quelli che non si riconoscono in questo modello di Italia, dovremo sopportare il dominio di chi con la marmorea e crudele indifferenza delle leggi ritiene di poter decidere della vita di un’intera umanità?

Massimiliano Perna -ilmegafono.org