Le sentenze si rispettano, anche quando non si condividono. Alle sentenze, però, bisognerebbe arrivarci, dopo aver istruito un giudizio, senza fermarsi prima. Soprattutto se gli elementi per fermarsi non ci sono. Perché è questa la cosa che fa più male a chi chiede giustizia per un congiunto, sul cui omicidio non vi sono dubbi. La vicenda del giovane caporale Tony Drago, che abbiamo seguito costantemente su queste pagine, qualche giorno fa ha vissuto una tappa avvilente. Il gip di Roma, Angela Gerardi, ha infatti disposto l’archiviazione del caso, come richiesto più volte dal pubblico ministero, Alberto Galanti. Un pm che, in questi quattro anni di indagini, ha spesso lasciato perplessi per certe scelte, per il comportamento che è sembrato quasi sempre più orientato alla chiusura del caso che all’accertamento della verità sul destino di Tony.

Premature richieste di archiviazione, poca considerazione dei gravi elementi a sostegno della tesi omicidiaria risultanti dalle perizie medico-scientifiche, e ritardi inspiegabili: un atteggiamento che ha spesso irritato i legali della famiglia Drago. Non a caso, nel luglio 2017, l’avvocato Riccioli, che rappresenta Rosaria, la mamma di Tony, e il marito Alfredo, aveva chiesto al Procuratore Generale presso la Procura di Roma l’avocazione delle indagini. Una richiesta respinta. Mentre non è stata respinta, purtroppo, l’ennesima richiesta, fatta da Galanti, di archiviare il caso, dopo l’approfondimento ulteriore di indagini che il gip aveva precedentemente disposto. Approfondimento che aveva portato alla riesumazione della salma del giovane militare e ad altre perizie medico-scientifiche affidate a due periti incaricati dalla Procura.

Perizie che hanno riconosciuto l’impossibilità per un qualsiasi essere umano di precipitare a una distanza tale (4,8 metri) rispetto alla finestra del presunto lancio nel vuoto (a circa 10 metri di altezza). Non solo, le stesse perizie hanno confermato che, seppur le lesioni complessive di Drago non sono del tutto incompatibili con atti autolesivi o con precipitazione volontaria, risulta evidente che lo stesso presentava ferite al cranio prodotte da un colpo inferto da uno strumento a superficie larga. Nell’udienza del 15 marzo 2017, i periti sostengono “in maniera ancora più chiara – come scrive il gip nell’ordinanza con la quale ha archiviato il caso – l’incompatibilità dell’evento con la precipitazione, ipotizzando che il Drago fosse stato dapprima colpito alla schiena, poi al capo con un oggetto piatto e largo: riferivano anche di un enfisema polmonare dovuto ad una sorta di asfissia precedente al decesso, incompatibile con il suicidio e con la natura istantanea del decesso che dal suicidio sarebbe derivato”.

Insomma Tony è stato ucciso. Picchiato, colpito selvaggiamente. Il suicidio sarebbe una messa in scena, come mostrano le anomalie sulla posizione del corpo (distanza, multilesività incompatibile con la caduta, la presenza delle infradito ai piedi). Ma allora perché, dinnanzi a tale certezza, il pm ha chiesto ancora l’archiviazione, negando quanto stabilito dai periti, ritenendo insufficienti le evidenze per dimostrare che Tony non si fosse suicidato? Perché il pm Galanti ha subito creduto all’ipotesi del suicidio, nonostante le anomalie anche nelle indagini iniziali, quando responsabili della caserma Sabatini e medico del 118, prima ancora di qualsiasi verifica, dichiararono che Tony si era ammazzato a causa di una crisi depressiva legata alla fine della relazione con la fidanzata?

Perché non ha ritenuto sospette le lacune nella relazione del medico legale (che dimentica di indicare l’ora presunta della morte e non rileva la stranezza delle ferite sul corpo e sul cranio di Tony)? Perché non ha ritenuto ancora più sospette le carenze di indagine che hanno portato a non acquisire né video di sorveglianza, né intercettazioni telefoniche dei commilitoni di Drago e dei responsabili della caserma, né ad accertare per tempo chi avesse violato due volte l’indirizzo di posta elettronica di Tony il pomeriggio stesso della sua morte?

Non si capiscono molte cose in questa vicenda, cose che in realtà sono chiare a chi ha a cuore l’accertamento della verità. Una verità nascosta dalle solite scuse e dalle solite lacune investigative, dall’inspiegabile ritardo con il quale sono state fornite le foto dello scenario del ritrovamento e dell’autopsia del ragazzo, dal ritardo con il quale è stato consegnato il pc di Tony, completamente ripulito. Ci sono molte analogie con il caso Scieri, a partire dalla immediata dichiarazione dei vertici militari del corpo di appartenenza (in quel caso la Folgore) sul suicidio per motivi d’amore e su una sopraggiunta depressione. Come se due ragazzi vitali e animati da un sogno di giustizia e da ideali forti potessero lasciarsi abbattere da una relazione giovanile finita.

Guarda caso sempre dentro una caserma e, guarda caso, in circostanze nelle quali gli elementi di indagine risulteranno poi carenti e l’ipotesi del suicidio quantomeno fantasiosa. Per Scieri si archiviò per impossibilità di rompere il muro di omertà dei militari. Per Tony si archivia perché, pur permanendo delle zone d’ombra, non sarebbe più possibile svolgere alcune investigazioni e perché, come si legge nell’ordinanza, “gli elementi ad oggi raccolti non possono ritenersi idonei a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio, non essendo stata neppure accertata la esatta dinamica dei fatti”. Una resa assurda, inaccettabile in un Paese democratico che nelle aule dei tribunali ha impressa una frase: “La legge è uguale per tutti”.

La parole di uno dei due legali della famiglia, l’avvocato Dario Riccioli, sono chiare e pesano tantissimo: “Questa archiviazione avviene nonostante i periti, nominati dallo stesso gip, nel corso dell’udienza del 15 marzo 2017, avessero chiarito, con rigore scientifico e ogni oltre ragionevole dubbio, che l’unica ricostruzione compatibile con le lesioni riportate da Tony Drago e l’analisi della scena del crimine fosse quella omicidiaria (dapprima colpito alla schiena, mentre era obbligato a fare delle flessioni e, successivamente, al capo con un oggetto piatto e largo)”. La famiglia di Tony si dice amareggiata e sconvolta dalla decisione. Ma decisa ad andare avanti, anche se bisognerà attivare una raccolta fondi perché, quattro anni di indagini, nonostante i legali non abbiano chiesto il pagamento di parcelle, hanno dei costi. La legge non è uguale per tutti, in Italia. Forse lo è per chi ha mezzi e potere. Per gli altri è un percorso a ostacoli, dispendioso e usurante.

Speriamo, pertanto, che adesso, su questa vicenda non cada il silenzio e che la città di Siracusa, unita e compatta, si impegni in tal senso. Il sindaco Francesco Italia ha assicurato il sostegno del Comune di Siracusa: “Il dovere di accertare la verità sui punti che restano tuttora oscuri, merita la massima attenzione da parte di chi ricopre ruoli di responsabilità nelle istituzioni. Incontrerò nei prossimi giorni i familiari di Tony Drago e i loro avvocati per esprimere la solidarietà mia e di tutta la cittadinanza insieme all’impegno di restare loro accanto fino a quando giustizia non sarà fatta”.

Ce lo auguriamo e ci auguriamo che non si debbano aspettare vent’anni, come per Emanuele Scieri, per vedere dei nomi e dei cognomi e dei volti seduti in un’aula giudiziaria per difendersi dall’accusa di omicidio.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org