Dalle campagne arriva un grido d’allarme. Il Covid-19 sta creando problemi anche al settore agricolo: l’assenza di manodopera stagionale rende infatti difficoltosa la raccolta di frutta e verdura. Lo segnalano le associazioni di categoria e molti imprenditori agricoli. Un allarme legato alla difficoltà dei lavoratori stagionali, soprattutto stranieri, di recarsi nelle zone di raccolta, viste le restrizioni su viaggi e spostamenti legate ai decreti sull’emergenza. In un’economia basata sulle stagionalità dei prodotti, il flusso di lavoratori che si spostano per rispondere all’offerta di lavoro è vitale. Lo si sapeva anche prima del virus, quando la presenza dei braccianti, in parte stranieri, andava a colmare un vuoto, una carenza di manodopera locale, sempre meno attratta dalla durezza del lavoro agricolo. I braccianti stranieri in agricoltura sono circa il 27% del totale dei lavoratori con contratto regolare. A questi si aggiunga un’altra fetta di lavoratori in nero, per un totale complessivo di circa 430000 stranieri impiegati in agricoltura (fonte dati: CREA).

Il lavoro stagionale, in particolare, attira molti stranieri, sia quelli che vengono dall’estero (paesi dell’Est Europa) sia quelli già presenti in Italia, che si muovono lungo il territorio nazionale. Le aziende agricole oggi stanno sperimentando cosa significherebbe appoggiare politiche di chiusura o di avversione nei confronti dei migranti: almeno metà dei raccolti sarebbero lasciati a marcire e i danni economici sarebbero ingenti. A nulla servirebbe appellarsi alla manodopera locale, perché buona parte dei disoccupati italiani non cerca lavoro nelle campagne. Le snobba, le rifiuta. Lo dimostra il fatto che in questo periodo di difficoltà, le associazioni di categoria chiedono misure per incentivare studenti e pensionati italiani a lavorare nei campi. Curioso che a lamentarsi sia quel settore imprenditoriale agricolo che in oltre 80 aree rurali del Paese da anni si avvale, molto spesso, di forme di intermediazione bestiali e illegali. Curioso che ai loro appelli gli italiani non rispondano, gli stessi italiani che poi puntano il dito sui migranti accusandoli di toglierci il lavoro.

Dai campi, intanto, arriva un altro grido, non di allarme, ma di dolore e rabbia. Un urlo flebile, purtroppo, un urlo strozzato nel silenzio che perdura da anni. Un silenzio colloso, viscido, ipocrita che si appiccica alla dignità di migliaia di lavoratori ingabbiati dentro un sistema schiavistico che galleggia da anni nelle paludi dell’economia italiana. È l’urlo proprio dei braccianti stagionali stranieri vittime del caporalato, di un metodo illecito di intermediazione che torna utile a chi fa dello sfruttamento la base del proprio profitto. Un metodo che trova la sua genesi nella crisi di un’agricoltura vessata da molteplici problemi: dai nuovi scenari competitivi mondiali al peso schiacciante della grande distribuzione, dai prezzi pagati ai produttori che sono molto al di sotto dei costi di produzione, alle frodi e alle infiltrazioni criminali che spesso caratterizzano la filiera (dal trasporto fino ai mercati). Una crisi che da anni viene scaricata sui lavoratori, tagliando in modo illecito i costi sul lavoro e i diritti, servendosi di un esercito di caporali che ci riporta a un passato orribile.

In diverse aree agricole, molti braccianti stranieri si trovano bloccati sotto gli alberi, ai margini delle campagne, in casolari diroccati oppure in tende o in baracche di fortuna, costruite con legno, plastica e lamiera. Al freddo di una primavera che, come sempre, regala pioggia e sferza la pelle, soprattutto di notte. Braccianti, lavoratori, esseri umani. Soli, quasi sempre. Perché in molte zone i sindacati, tranne alcune eccezioni, non riescono ad avere presa, a sfidare le aziende con la durezza di un tempo, a rassicurare i lavoratori immigrati, che purtroppo hanno molta paura, non solo di perdere il lavoro e la paga, ma anche di subire le ritorsioni da parte dei caporali. Nelle aree di caporalato è così, ci si arrangia, si resiste spesso grazie alla solidarietà tra lavoratori o a quella di associazioni o attivisti. In alcuni casi si riesce a costruire anche qualcosa di alternativo, di economico ed etico, come nei casi di Sos Rosarno o della rete No Cap, che mette una “etichetta” etica a quelle produzioni che rispettano i diritti dei lavoratori e rifiutano il caporalato.

Ma in generale, la situazione è drammatica e il Coronavirus non sta facilitando le cose. Mentre le imprese lamentano la difficoltà di reperire manodopera, i braccianti restano abbandonati nelle zone nelle quali sono riusciti a giungere prima dello stop oppure bloccati dove non c’è lavoro. Per loro non esistono molte garanzie, soprattutto per chi in questo momento sta vivendo anche gli effetti “burocratici” dell’emergenza. I duplicati di documenti smarriti o rovinati (qualcosa che avviene spesso nelle campagne), gli effetti nefasti dei decreti sicurezza: per molti di loro, il rischio di trovarsi alla fine dell’emergenza in una situazione di irregolarità è tangibile e reale (il governo, intanto, per tamponare la situazione, ha allungato i termini di permessi e documenti). A tutto ciò si aggiungano: l’ostilità e il razzismo delle zone nelle quali si trovano; la violenza e il controllo dei caporali, in gran parte nordafricani, che ormai si avvalgono anche di sub-caporali che hanno il compito di controllare e marcare da vicino eventuali velleità di protesta o denuncia.

Per non parlare poi dell’irrisolto problema alloggiativo, dal momento che le istituzioni, le imprese e gli enti locali di molte aree coinvolte dal fenomeno continuano a disinteressarsi delle condizioni abitative dei lavoratori. I prefetti spesso smaniano per soluzioni illogiche e crudeli come gli sgomberi. In alcuni casi, qualche sindaco si oppone e attua qualche intervento minimo, qualche servizio essenziale, come bagni chimici, acqua, cibo. Nient’altro. Spesso si lasciano fermi a prender polvere dei moduli abitativi già a disposizione delle prefetture (come a Siracusa, ad esempio) che permetterebbero l’allestimento di campi di accoglienza civili. Magari aggiungendo una regolarizzazione di massa di quei lavoratori impiegati nei campi che hanno perso o visto scadere i propri documenti, insieme a un controllo stretto e severo su chi pratica il sommerso e utilizza metodi non legali di reclutamento della manodopera.

La burocrazia, i cavilli, i soldi sono gli ostacoli indicati per coprire quella che in realtà è mancata volontà politica. Burocrazia e soldi, quei soldi che le aziende e le associazioni di categoria non hanno mai voluto tirar fuori per contribuire a progetti e soluzioni che possano rendere umano e responsabile il rapporto con i lavoratori di cui si servono. D’altra parte, anche eliminare i caporali nella fase della selezione dei lavoratori sarebbe altrettanto umano e responsabile… Chissà se il post virus cambierà anche questo. O se, passata la paura, si tornerà a quella ipocrisia che fa rima con profitto e che ha tanti responsabili. Chissà se prima o poi verrà interrotto quel silenzio che, nelle campagne, dura da troppo tempo e che purtroppo non conosce più scioperi né momenti di protesta.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org