Nel 1991 Libero Grassi venne ucciso perché aveva scelto di non piegarsi, di difendere la propria dignità e quella libertà che portava nel cuore e nel nome. Fu quello il momento in cui l’Italia intera comprese davvero cosa fosse il racket. I siciliani lo sapevano già, perché avevano iniziato a lottare contro le estorsioni ancor prima dell’assassinio di Grassi. Era accaduto in diverse parti dell’isola. Era accaduto a Capo d’Orlando, dove Tano Grasso aveva fondato nel 1990 la prima associazione antiracket italiana. Così come a Siracusa, dove in quello stesso periodo nacque l’osservatorio provinciale antiracket, in un momento in cui, in piena guerra di mafia tra clan cittadini e della provincia, ogni notte saltavano una o due attività, dai negozi ai laboratori analisi.

Era avvenuto anche a Palazzolo Acreide, comune montano in provincia di Siracusa, con Paolo Caligiore e altri commercianti che, stanchi degli attentati che distruggevano le attività commerciali, decisero di organizzare delle ronde notturne per vigilare sui propri negozi, visto che lo Stato era ancora lontano da una azione efficace contro questo fenomeno mafioso. Un fenomeno che aveva sconvolto la vita tranquilla del paesino barocco arrampicato sugli Iblei.

Erano anni durissimi, gli anni dell’offensiva mafiosa in Sicilia, quelli che precedettero le stragi del 1992. La mafia era argomento di discussione continuo, nei bar, sui giornali, in tv, nei talk show, nelle scuole. In Sicilia, la solitudine di Libero Grassi, abbandonato da Confindustria e dai suoi colleghi, venne vissuta con dolore e rabbia. Agli attentati al tritolo che facevano deflagrare le vetrine e le saracinesche, si rispondeva in maniera unitaria. A Siracusa, prefettura, organizzazioni di categoria, sindacati, commercianti iniziarono a combattere, insieme, a denunciare, a costituirsi poi nei processi contro gli estortori. La cittadinanza attiva era cosciente, iniziava a svegliarsi, partecipava. Tanto è vero che, negli anni successivi, quando il racket è tornato ad alzare il tiro più volte contro un pub (l’Irish pub) e il suo titolare, furono tanti i momenti di presidio, solidarietà, partecipazione. La città non voleva più tornare nell’inferno della fine anni ‘80.

Poi, il buio. Altri attentati, più sporadici ma ugualmente odiosi, macchine bruciate, intimidazioni. Tutto dentro un’epoca, quella attuale, nella quale di mafia non si parla più e di racket ancora meno. Come fosse un fenomeno ormai marginale, poco conveniente per la mafia, perché con le denunce e le prese di coscienza, con le associazioni antiracket che nel frattempo sono cresciute, con le leggi attuali, il rischio vale meno del guadagno. Si è creata la convinzione che le estorsioni siano qualcosa di passato, di meno capillare nel tessuto economico della città e del Paese. Peccato solo che non sia così. Peccato che, a fronte di molti più commercianti decisi a denunciare, a fronte del lavoro enorme di sostegno, sensibilizzazione e tutela che le associazioni svolgono, ci sia una parte che ancora paga, subisce o vive nella paura. E che nei territori, le istituzioni abbiano smesso di occuparsi seriamente di lotta alle mafie e al racket. Soprattutto si dimentica di sottolineare che le mafie, in questa città, si sono riorganizzate.

A Siracusa, l’ultimo attentato ai danni della tabaccheria di due esponenti storici del movimento antiracket, non ha scosso le coscienze come avrebbe fatto in passato. Mentre gli inquirenti indagano per capire se si tratti di un atto isolato, vandalico, o un avvertimento, un segnale contro chi non ha mai voluto pagare, le istituzioni politiche hanno espresso vicinanza, presenza, parole, promesse. Ma prima della bomba, davanti ad altri attentati avevano fatto lo stesso. Senza poi predisporre azioni concrete. La cittadinanza, tranne qualche eccezione, ha risposto con il silenzio. Al presidio di solidarietà, c’erano le associazioni antiracket, venute anche da altre province, c’erano il sindaco e un assessore, ma pochi cittadini siracusani rispetto a quanto avveniva un tempo. Mancavano anche i sindacati e buona parte del mondo delle associazioni civiche. Eppure gli esponenti dell’antiracket provinciale avevano lanciato un allarme serio, facendo notare come i clan, dopo anni di arresti e colpi subiti, abbiano ripreso a controllare il territorio e a farsi sentire.

L’attentato a due simboli della lotta al racket potrebbe essere un messaggio chiaro e preoccupante, che proviene da un quartiere nel quale esiste un clan che esercita il suo potere. Ed è un messaggio non solo alla tabaccheria schierata contro il racket, ma all’intera città. Una città nella quale le mafie sono tornate a mettere le mani in maniera ancora più evidente. In molti ambiti. Una città nella quale l’illegalità è troppo libera di agire e non certo a causa delle forze dell’ordine, che lavorano bene e che soprattutto negli ultimi anni stanno mettendo a segno operazioni importanti e quotidiane, in particolare per quel che riguarda il traffico di droga. L’illegalità a Siracusa è tollerata da chi, nelle istituzioni, non agisce con forza per scoraggiare anche il più piccolo atto di sopraffazione. Parliamo anche di forme di illegalità più spicciole e facili da debellare e che invece rimangono impunite.

Dalla vendita illegale di pesce e frutti di mare nel cuore di Ortigia, all’inefficacia di azioni preventive e di sanzioni per chi sistematicamente non rispetta la differenziazione dei rifiuti o li abbandona ovunque, dai fuochi d’artificio lasciati liberi di esplodere ogni notte negli stessi luoghi, ai parcheggiatori abusivi davanti a luoghi di cultura come il teatro greco. Il tutto condito dall’assenza di azioni concrete di recupero e di coinvolgimento delle aree più emarginate nella vita della città, non solo quella commerciale e di consumo ma anche quella culturale. Al netto delle belle parole, a Siracusa non vi sono strategie complessive, da parte delle istituzioni locali e di governo, per sostenere le associazioni antiracket, per stimolare e tutelare chi denuncia o chi vorrebbe farlo ma ha paura, per assicurare un controllo concreto ed efficace del territorio sottraendolo alle mafie. Non c’è una strategia di guerra aperta alle mafie, non si avverte un’aria di sfida alla criminalità, anzi c’è una sorta di molle inerzia e di insopportabile silenzio che viene rotto solo quando accade qualcosa.

Un silenzio che ormai ha contagiato anche una cittadinanza che non scende più in piazza, non accorre come faceva un tempo a sostenere chi ha subito un attentato. Lo fanno in pochi, lo fanno con un bellissimo spirito solidale, ma non basta. A Siracusa c’è bisogno di una nuova rivoluzione antimafia e antiracket, di una politica che creda davvero in questo e c’è bisogno della sinergia di tutti gli attori sociali di questa città, dai sindacati alle associazioni, alle organizzazioni del commercio e dell’industria. Bisogna tornare a parlare di mafia, ad affrontarla e sfidarla apertamente e ad agire a livello sociale, culturale, politico, per svuotare i serbatoi delle mafie stesse. Perché vestire a festa (peraltro con poco gusto e tanti eccessi) il centro storico per adulare servilmente i turisti, non nasconde comunque le tante ferite aperte e le cicatrici profonde che questa città mostra se la si guarda con occhio sincero e senza la retorica insopportabile che da tempo la circonda e la descrive.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org