La Dda di Napoli, in collaborazione con i Carabinieri, ha provveduto all’esecuzione di ben 45 ordinanze di misura cautelare nei confronti di numerosi membri del clan Elia che da anni gestiva e controllava le zone del centro città (tra cui la famosa piazza del Plebiscito e il lungomare del capoluogo). Grazie alle indagini svolte in questi anni, realizzate anche con l’ausilio di diverse intercettazioni di natura ambientale, i procuratori sono riusciti a ricostruire l’intero organigramma della cosca criminale. 

Tra i soggetti colpiti  dal provvedimento spiccano i nomi di Ciro e Antonio Elia, capostipiti della famiglia e successori di Michele, detenuto dal 2011. Sembra che il clan controllasse il territorio non solo attraverso il racket e le estorsioni, ma soprattutto grazie allo spaccio della droga che, a quanto pare, poteva fruttare sino a 5.000 euro al giorno. Alla luce di quanto scoperto, gli indagati dovranno rispondere di varie accuse, tra cui associazione a delinquere di tipo mafioso e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, spaccio di droga, estorsioni e detenzione e porto illegale di armi, reati aggravati dal metodo mafioso.

Tra le carte dell’inchiesta e nei video realizzati durante le intercettazioni, emerge uno scenario preoccupante: il clan, infatti, utilizzava dei bambini per il confezionamento e la consegna della droga stessa esponendoli così a rischi e pericoli elevatissimi. Secondo quanto scoperto dagli inquirenti, infatti, i bambini (la maggior parte tra i 10 e i 13 anni) sarebbero stati utilizzati dai pusher per consegnare la droga ai clienti sia perché più svelti, ma soprattutto perché meno imputabili in termini di responsabilità. Stando alle intercettazioni, inoltre, pare che i bambini fossero abbastanza coscienti del ruolo e dei compiti da loro svolti, il che getta una luce ancor più catastrofica su una problematica che in un Paese civile non dovrebbe neppure esistere.

Il fatto più grave dell’intera vicenda, infatti, non è tanto l’azione in sé commessa dai minori (comunque orrenda), bensì l’idea che un bambino possa gestire da solo una piazza di spaccio. Questo significa, senza troppi giri di parole, che lo Stato ha perso e continua a perdere in maniera inesorabile nei confronti di una fascia della popolazione che avrebbe bisogno di maggior attenzione, maggior protezione e di tutele inalienabili.

Quando un bambino di 10 anni lascia la scuola per intraprendere il ruolo di spacciatore (e quindi entrare in un clan mafioso), la sconfitta è di tutti ed è enorme, gigantesca. Parlare di numeri, statistiche, dati che certificano il problema dell’abbandono scolastico non avrebbe senso (o perlomeno si rischierebbe di portare per le lunghe un tema che andrebbe affrontato nell’immediato); i video pubblicati dai Carabinieri dimostrano chiaramente come lo Stato sia assente in certe zone dove, allo stesso tempo, la criminalità non trova alcuna difficoltà nel reclutare nuovi membri sempre più giovani.

È inaccettabile assistere alla rovina di un bambino, neppure adolescente. Non possiamo voltarci dall’altra parte quando di mezzo vi sono delle anime innocenti che vengono catapultate in un mondo che non dovrebbe essere il loro, un mondo adulto, fatto di pericoli, fatto di gente che non pensa ad altro che non sia denaro o potere, gente che non perdona.

Quanto emerso in questi giorni non può essere relegato ad un semplice fatto di cronaca, bensì dovrebbe far riflettere chi preferisce nascondere tutto dietro la bellezza o il turismo. E soprattutto intervenire concretamente. Bisogna capire che parliamo di bambini, esseri umani che hanno il diritto di crescere, imparare e scoprire il mondo nel migliore dei modi possibili secondo le proprie capacità e abilità, sempre circondati dalla legalità e dal buonsenso, e non da inferni che rischiano di segnare la loro vita per sempre.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org