Nata poco più di due anni fa, l’inchiesta Open ha tra gli indagati Matteo Renzi e molti dei suoi più stretti collaboratori. L’accusa principale della Procura di Firenze è che Renzi abbia utilizzato la Fondazione Open per finanziare il suo partito, raccogliendo denaro da privati per eventi legati alla propria attività, senza però che questa rispettasse i requisiti di trasparenza e tracciabilità richiesti alle fondazioni che agiscono come organi di partito. La tesi, che dovrà essere verificata nel processo, è che Open agisse come articolazione di partito e che quindi dovesse rispettare obblighi più stringenti nella raccolta e gestione delle donazioni. Ma cos’è o, meglio, cos’era la Fondazione Open? Quando e perché nasce?

Essa vede la luce nel 2012 con il nome di Big Bang, come strumento finanziario per organizzare le annuali riunioni della cosiddetta “Leopolda”, gli appuntamenti degli alleati e dei sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, organizzati negli spazi dell’ex stazione Leopolda del capoluogo toscano. Il presidente della Fondazione era l’avv. Alberto Bianchi, mentre del Consiglio d’Amministrazione facevano parte lo stesso Renzi e i suoi principali collaboratori, come Maria Elena Boschi, Luca Lotti e l’imprenditore Marco Carrai. La Fondazione fu chiusa nel 2018 e si stima che, nei suoi sei anni di vita, abbia gestito sei milioni di euro.

L’inchiesta però si concentra su quasi 3,6 milioni di euro, che, secondo la Procura, fra il 2014 e il 2018, periodo in cui Renzi fu presidente del Consiglio dei Ministri (2014-2016) e segretario del Partito Democratico, sarebbero stati utilizzati per sostenere l’attività politica di Renzi e della corrente renziana del PD, come si legge in alcune pagine dell’inchiesta pubblicata dal Fatto Quotidiano. Denaro, secondo la Procura, incompatibile con le attività di una Fondazione politica, dato che sarebbe stato utilizzato per eventi atti a consolidare la leadership all’interno del Partito Democratico. A Renzi viene contestato il reato di finanziamento illecito ai partiti. Benché fosse solo membro del Consiglio di Amministrazione, la Procura lo considera infatti il capo effettivo della Fondazione, come si evincerebbe da diverse intercettazioni.

La stessa Procura, nel corso delle indagini, ha acquisito l’estratto conto del principale conto corrente di Renzi, finito sui giornali, causando indignazione tra i suoi sostenitori e sdegno e rabbia da parte sua. L’inchiesta e il processo diranno se ci sono reati. Tra le varie carte sono riemersi anche i pagamenti ricevuti da Matteo Renzi per la sua attività di conferenziere in Arabia Saudita, un Paese governato da una monarchia autoritaria, dove molte libertà fondamentali presenti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo non esistono; un Paese dove vengono calpestati i diritti delle donne, secondo l’antico proverbio che afferma: «Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba»; un Paese dove gli omosessuali vengono imprigionati, deportati, uccisi; un Paese responsabile del brutale omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.

Matteo Renzi fa politica attiva, è un senatore della Repubblica, ha fatto parte della Commissione Esteri e della Commissione Difesa al Senato, è il leader di Italia Viva. Su questo punto, aver ricevuto denaro dall’Arabia Saudita, non ha violato la legge, ma la sua indulgenza verso regimi indegni di essere difesi è scandalosa. Si pone dunque una questione di etica pubblica, che forse il senatore Renzi non conosce. Chi rappresenta il popolo italiano nei vari poteri dello Stato, ha l’obbligo morale di porsi delle domande. L’etica pubblica pone al centro del proprio interesse gli aspetti pubblici della vita umana, quindi la relazione tra la sfera individuale e quella collettiva. Dovrebbe chiedersi, il senatore Renzi: “Come giustifico alcune scelte pubbliche e di rilevanza collettiva su temi fondamentali del vivere comune?”. E magari provare darsi una risposta convincente e, appunto, etica.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org