La crisi di governo, provocata dal narcisismo del capo di un partito-persona che ha deciso di giocare d’azzardo, ci ha mostrato in modo impietoso lo stato malconcio della politica italiana, soprattutto di una sua parte. L’ego ipertrofico di chi sperava di vincere il piatto con l’ennesimo rilancio si è frantumato sul tavolo di chi, invece di scappare, ha scelto di “vedere”, smascherando il bluff in diretta tv. Così, le motivazioni, anche quelle valide, che avrebbero potuto essere usate come pungolo in una normale dialettica, hanno assunto il volto pallido, banale e multiforme del calcolo, dell’azzardo inutile, della megalomania e della irresponsabilità. Quello che resta, alla fine, è il quadro di una crisi scellerata, fuori luogo, in uno dei momenti più drammatici della storia del nostro Paese e non solo. Una crisi che aggiunge un allarmante senso di smarrimento all’ansia di un Paese già in lotta con il Covid, con il dolore per le tante perdite, con la paura, con i problemi economici e con le incertezze sul proprio futuro.

Una crisi di governo che, tra accuse reciproche e rese dei conti, tra vuoti di memoria e sciacallaggi, testimonia la scollatura disarmante tra una parte della classe politica e il Paese reale. Un Paese che, per tutti i sacrifici compiuti, non merita una perdita di tempo simile, né merita lo spettacolo deprimente andato in scena nelle due Camere durante il dibattito. Da un lato, la avvilente debolezza delle motivazioni esposte dai “ribelli” della maggioranza, il goffo e malriuscito tentativo di convincere tutti della purezza d’animo che ha portato alla scelta di aprire una crisi, continuando a presentare lo strumento delle dimissioni come una sorta di bollino di garanzia di quella purezza. E continuando a parlare come se in questi mesi non avessero partecipato alle decisioni. Dall’altro un’opposizione che, in gran parte, si è lasciata andare agli slogan, alla volgarità, alla narrazione di una realtà parallela rispetto a quella che concretamente stiamo vivendo.

Una narrazione farlocca, propagandistica, priva di lucidità e infarcita di stereotipi, menzogne, revisionismi. Una tristezza infinita. Come accade quando il gioco si fa sporco e la pancia prende il posto della ragione, a spiccare sono sempre gli stessi: Lega e Fratelli d’Italia. Matteo Salvini (ben introdotto da Borghi e Centinaio) e Giorgia Meloni. I due sovranisti nostrani, quelli che in questo anno di pandemia hanno guidato, a fasi alternate, gli eserciti dei negazionisti, dei complottisti, dei no mask, gli stessi che negli USA compongono le truppe di quel Trump dal quale, nemmeno dopo le istigate violenze di Washington, sono riusciti a prendere le distanze. Non possono farlo, semplicemente perché sono come lui, sono dentro quello che, Alfredo Somoza, definisce il “mondo parallelo” che propongono come reale e che tale ritengono, anche oltre il limite del possibile.

Gli interventi in aula dei due leader della destra sovranista italiana sono stati forse alcuni tra i punti più bassi della dialettica parlamentare degli ultimi anni. Un concentrato di allucinazioni politiche, costruite attraverso lo smantellamento della verità oggettiva e della storia, non solo quella del Paese ma anche quella dei loro partiti, delle loro esperienze politiche e personali. La leader di Fdi, con il suo solito tono da strillona, oltre a ripetere, come un disco inceppato, che bisogna tornare al voto, si è spinta a definire “vergognoso mercimonio” la normale attività, da parte del capo del governo, di ricerca e verifica di convergenze e appoggi per mantenere in vita la legislatura. Una verifica lecita e svolta in parlamento, alla luce del sole, in diretta televisiva, e sulla base di precise proposte in nome della necessità urgente di garantire stabilità di governo a un Paese che sta affrontando una fase decisiva e difficile nell’ambito della lotta al Covid.

“Vergognoso mercimonio”, ha avuto l’ardire di ripetere la leader di Fdi. Concetto che peraltro avevano già espresso, sui social, alcuni suoi colleghi di partito, come Guido Crosetto ad esempio. Un’accusa fuori luogo che attiene più alla coscienza di quella parte politica che ritiene che tutti agiscano allo stesso modo. Probabilmente Giorgia Meloni e i suoi temevano che si potesse ripetere ciò che accadde con Berlusconi ai tempi in cui la Meloni e Crosetto erano parte del Pdl. Il riferimento è al caso del senatore Sergio De Gregorio, che nel 2008 ricevette tre milioni di euro per votare contro il governo Prodi e farlo cadere. Il successivo esecutivo, nato anche da quell’azione illecita per la quale De Gregorio è stato condannato e Berlusconi pure (poi salvato dalla prescrizione), vedeva Giorgia Meloni ministro della Gioventù e Crosetto sottosegretario alla difesa. All’epoca, però, nessuna parola sul vergognoso mercimonio (quello lo era davvero) messo in atto dal capo del loro partito.

Ma la Meloni non è la sola ad avere preoccupanti vuoti di memoria e ad offrire al popolo una doppia morale a seconda delle convenienze. Anche Matteo Salvini ha offerto il peggio di sé, toccando un fondo che sembra non avere mai fine. A partire dall’uso strumentale delle parole e del nome di Paolo Borsellino. Un uso irrispettoso, ipocrita, blasfemo che ha già fatto inorridire e reagire i familiari del giudice. Salvini, però, incurante delle critiche, continua questa sua squallida pantomima. Pensando che, pronunciando quel nome possa riuscire a costruirsi una verginità, facendo dimenticare il caso del suo braccio destro Siri e dei suoi rapporti con Arata e con il re dell’eolico Nicastri, quest’ultimo agli arresti per associazione mafiosa, accusato di essere vicino a Matteo Messina Denaro. O per farci dimenticare i rinvii a giudizio di alcuni esponenti della Lega accusati, ad esempio, di voto di scambio in Sicilia. E questo è niente, perché il leader padano ne ha dette tante, troppe.

Ha parlato di lotta alla droga, dimenticando la sua amicizia, le foto, i selfie, con Luca Lucci, ultrà del Milan condannato per traffico di droga. Ha accusato il governo di favorire le multinazionali, dimenticando i soldi della Lega (sottratti alla cittadinanza) dirottati in Tanzania o l’affaire Savoini e i rapporti con le oligarchie russe, così saldi da portare l’allora ministro dell’Interno, Salvini, invitava l’ex prefetto di Siracusa, Pizzi, a diramare una circolare per limitare e addirittura vietare gli scioperi nell’area della Lukoil, accontentando così la richiesta dell’ambasciatore russo. Una bella cessione di sovranità a potentati esteri, alla faccia dell’amor patrio, del sovranismo, dell’amore immacolato di Maria e di tutte le altre baggianate veicolate come tormentoni grazie ai soldi pubblici investiti per nutrire la “Bestia” di Morisi.

E ancora, una introduzione allarmata sui dati relativi ai contagi in Italia, con tanto di accuse al governo sulla gestione delle misure di sicurezza, dimenticando in un sol colpo: le tante manifestazioni in piazza contro le restrizioni; le minimizzazioni sul Covid, anche quando i morti erano diventati migliaia; i selfie senza mascherina e le strette di mano in barba a qualsiasi protocollo di sicurezza. Per finire, la atroce citazione della pessima battuta di Grillo sui senatori a vita che muoiono troppo tardi. Una citazione che Salvini ha portato dentro l’aula parlamentare, in un momento terribile, in cui gli anziani muoiono negli ospedali, anche in quella Lombardia in cui la sua Lega ha gestito la pandemia in modo fallimentare, portandosi sulla coscienza molti contagi e morti.

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Ma non è così. Perché questa crisi di governo, forse in maniera definitiva, visto anche il momento, ha messo completamente a nudo i bluff e la sterilità di chi non ha mai smesso di vivere in una realtà virtuale autoprodotta e tra le bolle narcotizzanti del proprio narcisismo. Questa volta a indicarci che il re è nudo non è una persona, ma è la crisi stessa. Speriamo che gli italiani se ne accorgano e non lo dimentichino. Compresi coloro che aspirano a una destra migliore di questa.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org