Ai figuranti del circo di Pontida, di un luogo in cui i colori diventano barbarie e la politica si muta in aggressione o abusa dell’innocenza dei bambini. Ai leader politici, ai tribuni vigliacchi che parlano di “pulizia” con riferimento alla gestione del fenomeno migratorio. A chi urla acidamente e scioccamente “a casa loro”. A chi, dall’altra parte dell’agone politico, invece si indigna e richiama concetti di umanità e solidarietà, dimenticando d’improvviso la crudeltà strategica, nascosta dietro la facciata pulita, con la quale hanno aperto la strada all’orrore e costretto esseri umani a morire e altri a lasciare il loro presidio di soccorso e salvataggio. A tutti loro, a questa classe politica e dirigente trasversalmente inetta, calcolatrice, codarda o spietata, rivolgiamo l’appello al silenzio. Un silenzio magari accompagnato dalla lettura del decreto di fermo e degli atti con i quali la procura di Agrigento e la Dda di Palermo hanno arrestato, a Messina, tre trafficanti di esseri umani.

Tre aguzzini spietati, carcerieri, picchiatori, stupratori, al soldo di un boss libico, un uomo basso di statura, stempiato e violentissimo. Ossama il suo nome. Mahmoud, Ahmeda, Mohamed “Suarez”, Bengi e tanti altri, i nomi dei suoi scagnozzi. Un sistema terribile, atroce, tristemente noto. Le torture, gli omicidi, le umiliazioni, i pestaggi, gli stupri. Tutto quello che da tempo, da molto tempo sappiamo sulla Libia e sulle sue prigioni. Una sfilza di testimonianze, tutte credibili e dettagliate, con ricostruzioni fedeli, zero contraddizioni, ma tante lacrime, dolori, ricordi atroci, racconti dell’orrore. Sono contenuti in 35 pagine che descrivono la vita nei lager, il commercio di esseri umani, l’avidità disumana dei trafficanti. Sono il racconto di morti di cui non sapremo mai il nome, di corpi sfiniti dentro una stanza, dopo sofferenze indicibili.

Corpi spenti dalla fame o dall’assenza di cure per malattie contratte a causa delle condizioni terribili di detenzione, una detenzione senza reato, una detenzione da innocenti, da donne, uomini, bambini in fuga che diventano casseforti in pelle e ossa, da aprire facilmente. Con una telefonata, una richiesta di denaro, una richiesta che se non viene accolta significa tortura, scariche elettriche, tubi di gomma, fratture, colpi di pistola, violenze sessuali, esecuzioni. Niente cure per le ferite, cibo in misura minima, talmente minima che al dolore e alle cicatrici si aggiunge una fame infinita, quella stessa fame che ti spinge a prendere un tozzo di pane cercando invano di non essere visto e per questo essere sparato o ammazzato a sangue freddo. Morire per un tozzo di pane duro, da immergere in una zuppa rancida, bevendo acqua salmastra e sporca dai rubinetti del bagno.

La Libia è questo e tanto altro. Fazioni incontrollate di trafficanti, gruppi criminali, poliziotti e guardiacoste, tassisti, cittadini pienamente coinvolti nella tratta. Un traffico che attraversa il Niger, altra patria di trafficanti, lo stesso Niger con il quale il governo Gentiloni-Minniti pensò bene di allearsi per non far passare i migranti. Un traffico che ha i nomi delle città libiche, di quella Libia con la quale i governi Renzi-Minniti e Gentiloni-Minniti e poi Conte-Di Maio-Salvini hanno stretto accordi per trattenere i migranti. Per impedire la loro partenza verso l’Europa e farli restare lì, nelle mani dei loro aguzzini, sotto lo sguardo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale delle Migrazioni, legata all’Onu e incapace di fermare la violenza. Come emerge dai racconti dei migranti che, sbarcati in Italia, hanno riconosciuto e denunciato tre dei loro carcerieri dell’ex base militare di Zawyia, quella vicina al mare, con il muro alto e il cancello blu che conduce all’inferno.

Lì l’Oim può entrare, lì tre migranti sudanesi che si sono lamentati con l’Oim per il trattamento riservato loro dalle guardie sono stati poi ammazzati di botte da un carceriere, anch’egli sudanese. Questa è la Libia. Quella che è diventata, per gran parte della politica italiana, la soluzione per fermare gli arrivi e sventolare festosamente le cifre ai propri elettori drogati di odio e propaganda. La soluzione finale, lo sterminio che si compie lontano dai nostri occhi ma vicino alle nostre coste, sull’altra sponda del Mediterraneo, così vicina che in un giorno di vento potremmo immaginare di sentire le urla di chi implora pietà ai torturatori, ai sequestratori infami, ai quali quest’Europa ha lasciato carta bianca sul destino, la vita e la dignità di migliaia di persone. Saba, Sabratha, Zawya, Zuara, Tripoli: sono le moderne Auschwitz, Dachau, Mauthausen.

Sono luoghi di orrore, di morte, sono città di crimini efferati, di mercificazione della vita umana, della dignità, sono luoghi di sparizione, cancellazione e distruzione di corpi. Sono luoghi nei quali l’Europa e l’Italia continuano a vedere cinicamente opportunità di accordo e collaborazione. Accordo e collaborazione rinnovati recentemente anche con il voto di chi fingeva di indignarsi e di opporsi al ministro dell’Inferno leghista, dichiaratamente disumano, facilmente riconoscibile nella sua crudeltà, nel suo reiterare tattiche e slogan nazisti. La Libia è un inferno che nessuno, dall’Oim all’Unione Europea, fino all’Italia, ha davvero intenzione di chiudere. Sono rimaste solo le Ong a vigilare, a denunciare, a combattere per salvare vite umane e custodire quel briciolo di umanità che “lo stile di vita europeo”, così amato e lucidato dalla nuova Commissaria, dovrebbe contemplare se fosse meno ipocrita e più consapevole del sangue e dei saccheggi ripetuti sui quali si basa.

La Libia è il timbro più infame sull’atto d’accusa che la storia muoverà a noi, alle nostre generazioni di europei. Quando ci sarà da pagare il prezzo per tutto questo orrore di cui fingiamo di accorgerci solo adesso. Un orrore che fingiamo di conoscere da poco tempo e che invece ci appartiene e si mostra da almeno venti anni. Ecco perché a tutti coloro che continuano a negare quel che avviene in Libia, a tutti coloro i quali non intervengono e anzi puniscono chi dalla Libia fugge, ci sarebbe da augurare di viverla un giorno la propria Libia. Dal lato delle vittime, però, e non in quello di carnefici o di complici quali sono adesso.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org