Don Gino Flaim, fino a pochi giorni fa, era un perfetto sconosciuto. Un parroco pro tempore, collaboratore della Curia di Trento, settantacinquenne e con un po’ di idee in testa che l’opinione pubblica non conosceva. Oggi, purtroppo, siamo costretti a parlare delle sue frasi, della sua mentalità affidata alle parole pronunciate in tv, nell’intervista rilasciata al programma di La7, L’aria che tira. Parole che fanno male e accendono il dolore mai sopito di coloro i quali certe cose le hanno subite e non potranno mai dimenticarle. La sua logica perversa, priva di ragioni o di qualsiasi attenuante, non è solo personale o di una parte della Chiesa, ma purtroppo serpeggia dentro la società e genera orrori quotidiani.

“Comprendere” un pedofilo, assegnargli l’etichetta di individuo ingenuo o malato che finisce per “cadere” nella tentazione, laddove il tentatore sarebbe un bambino bisognoso di affetto, è il segno di una mentalità bacata, oscena, secondo la quale il carnefice viene quasi giustificato fino ad assumere il ruolo di vittima, mentre chi subisce violenza viene riempito di colpe. La stessa identica logica secondo cui una donna vittima di violenza sessuale viene accusata di aver provocato, di “essersela cercata”. Siamo ancora fermi lì, a questi discorsi tribali che affiorano dalla quotidianità di un Paese rimasto indietro, bloccato da secoli di oscurantismo, miseria e arretratezza culturale.

Siamo ancora a un livello tale per cui, tra l’altro, oltre a pronunciare tali bestemmie sulla pelle delle vittime di pedofilia, si continua a mischiare indebitamente questo argomento con quello dell’omosessualità, che don Gino definisce malattia. Si continua, in malafede, a creare punti di contatto tra ciò che è violenza, sopraffazione della dignità e dell’innocenza di un bambino e ciò che invece attiene alla sfera dell’affettività, dell’amore, del rispetto e del diritto. Fa male sentire quelle parole, sapendo peraltro che sono condivise (ovviamente in gran segreto) da molte più persone di quanto immaginiamo.

Inutile che adesso don Gino Flaim dica di non capire cosa abbia detto o di essere stato travisato, perché le riprese e l’audio sono chiarissimi, come chiaro è il senso vergognoso delle sue affermazioni. Che sono le stesse usate, come linea difensiva, dai carnefici, che sono tali per scelta consapevole, per una loro perversione, non per malattia (sarebbe troppo comodo), ma per un’inclinazione della crudeltà umana. Inaccettabile, ingiustificabile. Questa logica schifosa basata sulla colpa della vittima è la stessa contro cui le vittime di pedofilia devono combattere, quella che costruisce gli ostacoli più difficili da superare nei percorsi psicologici di ritorno a una vita normale e a una qualche forma di serenità.

La teoria della colpa altrui, fomentata da una società spietata che ragiona come don Gino, condanna le vittime a sensi di colpa tremendi e ingiusti e che spesso li porta a punirsi, a non denunciare, a continuare a subire. Un gioco al massacro alimentato da parole come quelle di questo sgradevole sacerdote. Non se ne può più di vittimizzazioni dei colpevoli, di rovesciamenti della realtà. I bambini hanno bisogno di affetto, non di violenza o perversione. Così come le donne hanno diritto a vivere e vestirsi come vogliono, senza che ciò possa attribuire a qualcuno il diritto di violentarle. Si spieghi a questo parroco che Gesù Cristo, nel quale egli dice di credere, riteneva i bambini (che all’epoca erano i soggetti più sopraffatti) gli esseri più meritevoli di tutela, minacciando punizioni durissime per chi osasse turbarli, non prevedendo né giustificazioni, né attenuanti, né perdono per i carnefici.

Papa Francesco ha avviato una durissima lotta alla pedofilia, ha fatto una scelta ben precisa che la Chiesa è chiamata a rispettare. Lo ha ribadito appena qualche giorno fa. La Curia di Trento, infatti, ha sospeso, si spera definitivamente, don Flaim da qualsiasi attività pubblica, impedendogli di dire messa. E ha fatto una buona cosa, segno di una via nuova, di una visione riformatrice che spazzi via le scorie delle cattive abitudini. La speranza, adesso, è che si cominci anche a impedire di definire malattia il rapporto tra due uomini o due donne e di associarlo a qualcosa di diverso dalla sfera affettiva naturale dell’essere umano. Questo vale dentro la Chiesa, ma ancor più dentro lo Stato e le sue leggi.

Perché se la Chiesa, secondo la sua dottrina, può scegliere liberamente di non riconoscere come famiglia le coppie gay o lesbiche e di non concedere il matrimonio, assumendosi le responsabilità di una sua lontananza dal mondo nel quale si trova, lo Stato al contrario non ha alcuna ragione per non concedere a chi ama una persona dello stesso sesso il diritto di sposarla, di essere coppia, famiglia, di condividere diritti e doveri di qualsiasi altro cittadino. Non esistono dottrine o dogmi quando si parla di amministrare una nazione e di eliminare le discriminazioni. La Chiesa, se vuole, continui a vivere nel suo anacronismo, guardando con sospetto i tentativi di apertura dell’attuale papa.

Lo Stato no, non può permetterselo. Ogni giorno che passa senza che si faccia una legge chiara, laica, netta, non influenzata da pregiudizi o idiozie religiose, è un giorno in più di fallimento, di ingiustizia e violenza ai danni di moltissimi nostri concittadini e di noi stessi che di questo Stato siamo parte attiva. Ed è un giorno in più di vittoria per i tanti don Gino e per i tanti, troppi omofobi che costruiscono dolore e prevaricazione.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org