Quasi cento giorni. Cento giorni a Bengasi, nelle mani delle autorità libiche del generale Haftar, che controlla quella parte del Paese. Cento giorni ad attendere una giustizia farsa, a difendersi da accuse strumentali e artificiose. Senza alcuna notizia sulle possibilità di essere liberati e rimandati in Italia. Diciotto pescatori, italiani, tunisini, senegalesi e indonesiani che vivono e lavorano a Mazara del Vallo. Diciotto lavoratori catturati e arrestati da un governo non riconosciuto, che ha autodeterminato i confini delle proprie acque territoriali e che ora vorrebbe usare questi diciotto uomini come merce di scambio. La Libia è uno Stato diviso a metà, una polveriera, un caos che la comunità internazionale ha contribuito ad accrescere. Non c’è alcuna giustizia in Libia, in nessuna delle due aree politiche, non ci sono diritti, non c’è adesione alle Convenzioni in materia di diritti umani.

La Libia significa petrolio e commercio di petrolio, significa droga e interessi mafiosi, significa tratta di esseri umani. Un inferno dei diritti, una zona nella quale legalità e illegalità si mischiano costantemente, assumendo la stessa feroce faccia, indossando gli stessi abiti. Tutto senza che il governo italiano e le istituzioni europee riescano a rimediare ai tanti errori commessi. Diciotto persone ora sono bloccate ingiustamente in Libia dai primi di settembre, mentre i loro familiari chiedono al governo italiano di fare qualcosa. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, dopo un lungo silenzio, ha finalmente risposto che il governo si è attivato, che sta lavorando a livello di intelligence e che non è facile trattare con autorità non riconosciute. Ma nulla di più ha fatto sapere alle famiglie, che da tre mesi protestano per chiedere di agire subito.

Intanto, dalla Libia arrivano notizie di richieste al governo italiano da parte delle milizie di Haftar, secondo una vecchia consuetudine nei rapporti italo-libici: se tu mi dai qualcosa, io te ne do un’altra. Pare che Haftar abbia chiesto la liberazione di quattro prigionieri libici, arrestati e condannati in Italia come trafficanti e assassini. Ma di questa richiesta non si hanno certezze. La questione, ad ogni modo, è molto delicata, soprattutto per via del terribile scenario politico libico. Innanzitutto, c’è il “maresciallo”, generale Haftar, con le sue milizie, che hanno seminato orrore e morte nella guerra contro l’altra parte della Libia, il governo del presidente Al Sarraj, riconosciuto dall’Onu. Haftar e i suoi sono accusati di crimini contro l’umanità, di aver disseminato mine antiuomo e, di recente, anche dell’omicidio dell’avvocatessa Hanan al-Barassi, impegnata nella lotta per i diritti delle donne e contro la corruzione, che aveva denunciato gli abusi e le illegalità della cerchia di Haftar.

Da un lato le milizie, dunque, con le loro presunte richieste di “scambio” tra pescatori innocenti e trafficanti/criminali, dall’altro il governo di Al Serraj, con il quale l’Italia continua a fare accordi, coinvolgendo la guardia costiera e i militari del governo ufficiale, che sono pienamente coinvolti nel traffico di esseri umani. In poche parole, la situazione è sempre figlia delle disastrose politiche dell’Italia e dell’Europa negli ultimi anni, soprattutto con riferimento alla questione migratoria. L’Italia sta alla Libia, come l’Europa sta alla Turchia. Il nostro Paese, si è infilato dentro un ricatto osceno e perenne, attraverso accordi indecenti sottoscritti negli anni dai vari governi e ministri, da Minniti, a Salvini fino alla Lamorgese.

L’Italia da moltissimo tempo concede alla Libia qualsiasi cosa, in cambio di un freno alle partenze dei migranti, trattenuti, in cambio di soldi, mezzi e favori (così come avviene in Turchia), nelle prigioni-lager, dove torture, stupri, omicidi sono la regola quotidiana. Oppure respinti nel deserto, dove la morte arriva con la disidratazione, con la fame e la sete o per via delle pallottole di qualche trafficante. L’ultimo accordo è quello di cooperazione tecnico-militare siglato proprio poche ore fa con il governo di Tripoli (leggi qui), che tra gli obiettivi fissa come sempre quello di contrastare il traffico dei migranti (dimenticando che i trafficanti sono pienamente dentro le forze militari libiche).

Ecco perché il nostro Paese non è capace di ottenere troppo dai libici. Non ne ha il potere, perché, come dimostrano numerose inchieste, è troppo compromesso in trame oscure e perverse. Abbiamo consentito ai libici di dettare le regole, abbiamo concesso qualsiasi cosa pur di fermare i migranti e fornire ai governi italiani, di destra e di sinistra, la pastoia di propaganda da utilizzare a fini elettorali. Abbiamo barattato la vita di migliaia di esseri umani con il narcisismo politico e la rincorsa al potere. Lo ha ribadito, con una serenità funesta e acida, l’ex ministro dell’Interno (governi Renzi e Gentiloni), Marco Minniti, il quale in tv ha affermato che la politica della durezza era necessaria, che bisognava “dimostrare di essere capaci di impedire gli ingressi illegali”, altrimenti il popolo avrebbe “chiamato il 118”. Tradotto vuol dire: facciamo i duri così togliamo qualche voto a destra e ci prendiamo anche il consenso degli xenofobi e di chi prospera con la paura dei migranti.

L’Italia, ancora oggi, continua a mantenere gli accordi con la Libia, a riconoscere soldi e mezzi, a trattare, a quanto pare, con i trafficanti. Per l’Italia, vista la sua posizione e la situazione conflittuale libica, è molto difficile trattare la liberazione dei 18 pescatori, tra i quali peraltro ci sono 10 cittadini di origine non italiana, ma abitanti a Mazara del Vallo. Altro punto complesso, come dimostra il fatto che l’unica chiamata concessa dai libici alle famiglie è stata consentita solo agli 8 cittadini italiani. Una ingiustizia nell’ingiustizia. Una ingiustizia che dura da 100 giorni e sulla quale il governo per troppo tempo ha taciuto, non ha risposto in maniera adeguata. D’altra parte, davanti a una situazione così delicata, che richiede intelligenza, spessore e competenza, sperare in un ministro al quale queste qualità fanno difetto è veramente difficile. Meglio sperare nei suoi collaboratori. Di certo, però, a quelle famiglie di lavoratori, una risposta bisognerebbe darla. Perché, anche qualora vi fossero trattative in corso e necessità di segretezza, alle famiglie andrebbero assicurati ascolto, conforto e notizie chiare. Il minimo, insomma.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org