Un giorno forse saranno i libri di storia a colmare il terribile silenzio sul genocidio in atto in Libia, nelle diverse rotte attraversate dai migranti per raggiungere il paese nordafricano e nel Mediterraneo. Un silenzio nel quale soffocano e muoiono vite e storie, imprigionate dentro un inferno in cui bruciano tragedie e orrori che si sarebbero potuti evitare. Mohamed Mahmoud Abdulaziz è un nome, un altro appartenente a quelle migliaia (e chissà veramente quante) di persone sfinite e finite nell’oblio degli oppressi. Un nome che vale poco o niente per la gran parte dei media, degli esponenti politici e dell’opinione pubblica italiana. Un morto di Libia. L’ennesimo, uno di quelli che, per chi detiene le leve di comando del nostro Paese, sarebbe stato meglio fosse rimasto del tutto nascosto, perché a ogni nome e volto che emergono dalla perversa cortina costruita dai rapporti tra Italia e Libia poi si rischia di collegare una storia. E ciascuna storia, oltre a essere un terribile concentrato di tutte le più atroci ingiustizie umane, permette di puntare le luci su responsabili e complici di quelle ingiustizie.

Mohamed Mahmoud Abdulaziz aveva solo 19 anni, ma ne avrebbe potuti avere anche 30 o 40 o 50, cambierebbe poco. Era nato in Darfur, una delle storiche province del Sudan che da quasi un ventennio è devastata da un sanguinoso conflitto (del quale non si parla più). Un ragazzo che scappava dall’inferno e che voleva solo vivere. Ci ha provato, con tutte le sue forze. Ci ha provato in Libia, dove ha trovato solo dolore e ingiustizia. Era stato sfrattato con la forza dal quartiere di Gargaresh, in Tripolitania, a ottobre scorso, per essere poi imprigionato insieme ad altri migranti nel centro di detenzione di Al-Mabani, dove aveva subito terribili abusi. Era fuggito dal centro, insieme ad altri 4000 migranti, e si era recato al quartier generale di UNHCRLibya per chiedere protezione. La sua richiesta di aiuto, come quella di altri, era stata snobbata. Ha dovuto subire umiliazioni, patire la fame, la sete, accampato per 100 giorni, per protesta. insieme ad altri rifugiati, davanti alla sede di UNHCRLybia.

Un presidio finito il 10 gennaio 2022, come denuncia l’organizzazione umanitaria Refugees in Lybia, che su twitter ha raccontato quanto accaduto a Mohamed. Per 100 giorni questo ragazzo “ha gridato ad alta voce alle autorità libiche, alla comunità internazionale e alla Fortezza Europa per essere riconosciuto, per avere una voce e un volto per i quali i suoi diritti umani fondamentali sarebbero stati rispettati e protetti. Ma invece è stato ancora una volta messo a tacere il 10 gennaio, ancora una volta con uno sfratto forzato seguito da detenzione arbitraria”. Il presidio è stato sgomberato in maniera violenta e davanti all’indifferenza dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati. I migranti sono stati portati via. Mohamed Mahmoud Abdulaziz è stato condotto nel centro di prigionia di Ain Zara. Nuovamente torturato, dopo essere stato snobbato da chi aveva il dovere di aiutarlo, di tutelarne i diritti. Lì, ad Ain Zara, la sua stanchezza ha vinto, il suo dolore è stato più forte della sua voglia di vivere.

Mohamed Mahmoud Abdulaziz si è suicidato. Impiccato. I suoi compagni di prigionia raccontano che il suo corpo senza vita è stato lasciato lì per oltre 24 ore. Appeso. Sospeso nel silenzio di un mondo che continua a giocare con la vita degli esseri umani, per ragioni relative esclusivamente a interessi economici e politici. Mohamed Mahmoud Abdulaziz, adesso, è solo uno di quei nomi che è riuscito a trovare una voce capace di raccontarne il dramma e l’orrore. Come lui sono tanti, ogni maledetto giorno, a morire o subire violenze e abusi a un passo dall’Europa e dentro una nazione fasulla alla quale il nostro Paese continua a delegare la gestione dei flussi migratori. Elargendo soldi, mezzi, strutture, addestrando gli uomini che lavorano al soldo e a fianco dei trafficanti di esseri umani. La linea Minniti è ancora forte, è proseguita con Salvini e poi con la Lamorgese nel secondo governo Conte, prosegue oggi, sempre con la Lamorgese, nel governo Draghi.

Si donano ancora motovedette, equipaggiamenti, sistemi radar e di monitoraggio, con l’aiuto della nostra Marina militare (consigliamo di leggere un interessante pezzo di Duccio Facchini, su Altreconomia). Quello che è in atto è un genocidio scientificamente studiato, attorno al quale si cerca di costruire silenzio e si edificano da tempo raffinate strategie per allontanare ed eliminare i possibili testimoni, come le navi delle ong, combattute, osteggiate attraverso i media e le leggi vergogna, oppure fermate con ridicoli provvedimenti amministrativi basati su altrettanto ridicole contestazioni. Frutto di un disegno politico che, seppur con sfumature variabili e con qualche differenza di facciata, mette d’accordo tutti. Perché alla fine conviene a tutti, soprattutto a una classe dirigente incapace di abbandonare il proprio sporco concetto del consenso a tutti i costi e da tutte le parti, anche da quelle che tradizionalmente non bisognerebbe sedurre ma combattere o quantomeno educare.

Mohamed, allora, è uno dei tanti effetti collaterali, accettati e conosciuti, volutamente ignorati. Mohamed è un altro morto di Stato. Un morto dell’Onu e di un ufficio che, come molti denunciano da tempo, in Libia non svolge la sua funzione come dovrebbe. Così come non la svolge l’OIM. Mohamed è un morto europeo, ma soprattutto è un morto italiano. Un altro di quei nomi che la gran parte dei media del nostro Paese, tutti eroicamente impegnati nella retorica occidentale del conflitto russo-ucraino, snobbano (con pochissime eccezioni). Un altro di quei nomi che la storia scriverà dentro il memoriale di questo infinito genocidio made in Italy.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org