Era l’anno 1972 e, negli Stati Uniti, il presidente Richard Nixon veniva travolto dallo scandalo Watergate. Non era la prima volta che le inchieste giornalistiche coinvolgevano la Casa Bianca, l’ultima volta in ordine di tempo accadeva nel 1971 in piena guerra del Vietnam: il New York Times e il Washington Post raccontarono agli americani i segreti e le bugie che nessuno doveva conoscere su quella guerra, e lo fecero pubblicando i “Pentagono Papers”. Lo Scandalo Watergate fu l’inchiesta giornalistica che costrinse il presidente Nixon a dimettersi nell’agosto del 1974, per non affrontare l’inevitabile procedimento di stato d’accusa cui lo scandalo Watergate avrebbe portato.

Il giornalismo d’inchiesta è costruito faticosamente sul lungo periodo, attraverso indagini e contatto con le fonti, ed è così diverso dal riportare semplicemente una notizia. Scava, indaga in tutte le direzioni: corruzione, scandali politici e finanziari, osserva con la lente d’ingrandimento e poi denuncia gli intrecci e gli abusi del potere. Il potere, di ogni tipo e di ogni colore politico, ne conosce molto bene il significato e per questo lo teme ad ogni latitudine. Sono in molti a ritenere che il giornalismo d’inchiesta nasca storicamente negli Stati Uniti e i casi “Pentagono Papers” e “Watergate” alimentano questa tesi, ma è più bello pensare che sia invece un patrimonio comune e senza confini. Non esiste un territorio sicuro per chi crede nel giornalismo d’inchiesta, perché nessun potere accetta chi indaga e denuncia sul suo conto e la lista dei nomi cancellati dalla vita è lunga, in ogni parte del mondo.

Oggi uno dei nomi che fa tremare il potere è quello di Julian Assange. Julian Assange nasce il 3 luglio 1971, in Australia. È un precursore fra gli attivisti digitali cyberpunk, e intuisce che il web può anche essere uno strumento di informazione e di denuncia sociale. Ha vinto premi per il giornalismo e, nel 2010, viene nominato per il premio Nobel per la pace. WikiLeaks è il nome dell’organizzazione internazionale di cui Assange è uno dei fondatori, dove giornalisti e attivisti ricevono e archiviano documenti riservati, molte volte coperti da segreto di Stato. L’organizzazione si impegna a tutelare le fonti, ed è giusto ricordare che la tutela delle fonti è un dovere non solo morale ma anche un obbligo etico per chiunque decida di fare il giornalista. Wikileaks nasce nel 2006 e, dall’anno successivo, inizia la sua attività in collaborazione con alcune delle più autorevoli testate giornalistiche di tutto il mondo: New York Times, il Guardian, Der Spiegel, Le Monde e El Pais pubblicano i documenti di Wikileaks e danno visibilità e risonanza mondiale alla ragnatela di segreti e bugie sull’operato degli Stati.

La maggior parte dei documenti riservati che coinvolgono i vertici militari e politici USA arrivano da una fonte militare: il suo nome è Bradley Manning, soldato dell’esercito e analista di intelligence durante la guerra in Iraq, condannato a 35 anni di prigione dalla corte marziale per aver consegnato a Wikileaks il materiale segreto – 700 mila documenti classificati – sulle guerre USA. Ora Julian Assange, per l’America, è diventato un “pericolo pubblico”. A determinare questa accusa sono le tantissime informazioni – top secret – che sono state rese pubbliche dalla sua organizzazione e che riguardano paesi e governi, istituzioni militari e politiche: si va dalla denuncia circostanziata della repressione politica in Cina e in Turchia, alle accuse rivolte agli Stati Uniti sulle azioni compiute durante le guerre in Afghanistan e in Iraq.

Su queste guerre, in particolare, la divulgazione di documenti secretati e strettamente riservati mostra uno scenario profondamente diverso da quello che le fonti ufficiali americane, politiche e militari, hanno raccontato per anni all’opinione pubblica di tutto il mondo: è uno scenario che costringe l’America, e tutti i Paesi e i governi che hanno condiviso con gli USA queste guerre, a guardarsi allo specchio e rispondere del proprio operato. È tutta la politica americana a tremare, e la politica americana si sta muovendo in ogni modo per delegittimarlo. Al nome di Assange sono associate, nel 2010, due accuse di stupro che arrivano dalla Svezia. Di fronte a queste accuse Assange si è sempre dichiarato non colpevole e, nel 2012, aveva chiesto protezione e asilo all’ambasciata ecuadoregna a Londra per sfuggire all’estradizione in Svezia. Successivamente la magistratura svedese ha archiviato le accuse.

Ad oggi gli Stati Uniti lo accusano di violazione per aver rivelato documenti segreti del Pentagono sulle guerre in Afghanistan e Iraq, e lui rischia una condanna a 175 anni di carcere. Londra ha concesso l’estradizione di Assange, detenuto nel carcere londinese di Belmarsh, negli USA. Amnesty International ha commentato ufficialmente la decisione di Londra con le seguenti parole: “L’estradizione di Assange avrebbe conseguenze devastanti per la libertà di stampa e per l’opinione pubblica, che ha il diritto di sapere cosa fanno i governi in suo nome. Diffondere notizie di pubblico interesse è una pietra angolare della libertà di stampa. Estradare Assange ed esporlo ad accuse di spionaggio per aver pubblicato informazioni riservate rappresenterebbe un pericoloso precedente e costringerebbe i giornalisti di ogni parte del mondo a guardarsi le spalle” (leggi qui).

Chi ha paura di Julian Assange, chi trema e perché di fronte alle sue carte? Gli Stati, prima di tutto. Gran parte delle classi politiche e dei governi di gran parte del mondo. Gli Stati Uniti, in primis. E poi l’Europa e anche l’Italia. Nel dicembre del 2021. la Camera dei Deputati ha respinto la mozione che chiedeva di concedere ad Assange lo status di rifugiato politico: 22 voti favorevoli, 225 i contrari e 137 gli astenuti (leggi qui). Anche la città Milano si è espressa allo stesso modo, votando contro la mozione del gruppo di “Europa verde”, che proponeva di conferire la cittadinanza onoraria a Julian Assange. Fra i voti contrari anche quello di esponenti del PD di Milano, e le motivazioni sono quasi incredibili. Si è infatti arrivati a sostenere che “non è giusto premiare chi ha divulgato documenti secretati”.

Era l’anno 1972 e, negli Stati Uniti, il presidente Richard Nixon veniva travolto dallo scandalo Watergate. Cosa succederebbe oggi agli stessi giornalisti del Washington Post? Avrebbero ancora il sostegno del proprio giornale e del proprio editore? Cosa rischierebbero? Il giornalismo d’inchiesta ha sempre fatto paura al potere e il potere, quando ha voluto e potuto, ha sempre giocato ogni carta in suo possesso e in suo favore. Tante volte, troppe, queste carte hanno vinto e il prezzo è stato tremendo. La lista è lunga: Anna Stepanovna Politkovskaja, Daphne Caruana Galizia, Shireen Abu Akleh, Javier Valdez Cárdenas, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Pippo Fava, Giancarlo Siani, Ilaria Alpi…e tanti altri che diventa difficile ricordarli tutti.

Giornalisti d’inchiesta, scomodi e pericolosi, un po’ testardi e un po’ idealisti, uomini e donne che il potere non riesce a comprare. E il potere ha tanti nomi e tante facce, indossa abiti eleganti ed è sempre in guerra con il mondo o con gran parte di esso, a volte sono guerre dichiarate e a volte sono combattute costruendo 17 capi d’accusa che si appoggiano su una legge del 1917, scritta per chi chi passava informazioni al nemico: l’Espionage Act.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org