Giorgia Meloni sarà la prossima premier italiana. Una vittoria annunciata, una affermazione netta per quel che riguarda la maggioranza nelle due camere e spiegabile attraverso molteplici letture. Poco convincenti, sicuramente, sono quelle abbozzate in un primo momento dalle opposizioni. Da una parte, Enrico Letta, segretario del PD, ha accusato Giuseppe Conte e i 5 Stelle, rei di aver staccato la spina al governo Draghi e di aver aperto la crisi che ha portato al voto; dall’altra, i detrattori del PD hanno invece accusato proprio Letta e i suoi di aver condotto una campagna elettorale pessima, quasi volta a perdere, peraltro aggravata dalla decisione suicida di aver corso da soli, con un ticket al ribasso (in termini di numeri) con Sinistra Italiana-Europa Verde e +Europa. La verità, in questo caso, non sta nel mezzo, ma pende un po’ a favore della seconda asserzione, semplicemente perché lo dimostrano i dati.

Sia chiaro, un’alleanza che inglobasse anche i 5 Stelle non si sarebbe commutata aritmeticamente in una somma perfetta delle attuali percentuali (qualcosa entrambe le forze l’avrebbero persa per strada), ma di sicuro avrebbe reso il successo del centrodestra meno importante, con una distribuzione di seggi in parlamento che avrebbe probabilmente impedito a Meloni e ai suoi alleati di ottenere una minacciosa e inquietante maggioranza. In ogni caso, per riassumere tutto, Fratelli d’Italia ha battuto una sinistra debole, litigiosa e frammentata. Detto questo, però, è sbagliato guardare al voto solo da sinistra o dalle stanze dei 5 Stelle. Ci sono anche altre ragioni che hanno portato Giorgia Meloni così in alto, spingendo il suo partito dal 4,3% al 26,1% in quattro anni. La prima sta tutta nella scelta, intelligente e strategica, di restare fuori dal governo Draghi, mantenendosi all’opposizione e votando eventualmente quei provvedimenti, come già fatto durante la pandemia (seppur con rilievi critici), necessari alla tutela degli interessi dei cittadini.

Un gioco che Meloni ha saputo condurre bene, sempre sul filo tra l’estremismo delle idee e la concretezza delle scelte. Quest’ultima caratteristica le tornava utile per accreditarsi con le aree più moderate del centrodestra, mentre la retorica estrema del sovranismo e degli slogan feroci le serviva per distogliere l’attenzione da temi scottanti o sui quali era meno preparata, in modo da spostarsi su terreni più comodi e congeniali, come quelli della paura e della sicurezza. Certo, in mezzo ci sono state tante uscite a vuoto pesanti, come quella sull’aborto o sui diritti civili, ma sono durate poco e sono comunque servite a evitare gli argomenti più paludosi, quali le ricette economiche, le misure su lavoro e formazione, l’istruzione, la visione geopolitica, la politica estera.

Gli italiani ci sono cascati, non perché sono stupidi, ma perché sono stanchi e, a causa della liquefazione degli steccati ideologici che non appartengono a quella parte oscillante o cucita dentro le sacche dell’astensionismo o dell’indecisione, hanno scelto di provare anche questa. Ci sono cascati anche gli avversari, in questo caso il PD, che ha impostato la campagna elettorale sulla demonizzazione della rivale, toccando temi che poco interessavano agli italiani e a quella fetta decisa a votare per chi gli promettesse di andare oltre la difesa acritica e insensata dell’agenda Draghi. Fermiamoci qui, però, con le responsabilità degli altri. Perché poi ci sono dinamiche che riguardano anche il centrodestra e che hanno favorito l’ascesa di FdI.

Innanzitutto, il declino della Lega, massacrata dalle incapacità sempre più manifeste di Salvini. Un crollo, quello del Carroccio, che dopo anni torna all’8%. Ovviamente, la fuga degli elettori della Lega si è trasformata in uno spostamento verso Giorgia Meloni, ritenuta più affidabile. Discorso diverso per Forza Italia, ormai in declino costante e decimata dagli addii illustri. Qui, una parte dell’elettorato si è diretta verso il terzo polo di Calenda e Renzi (che non è decollato, ma è servito all’ex premier toscano per non sparire e per entrare in Parlamento), mentre il resto, soprattutto al Sud, ha traslocato in FdI. A ciò si aggiungano quegli ex elettori 5 Stelle che, dopo la svolta progressista di Conte, sono fuggiti in direzione Meloni.

Al di là delle ragioni del voto, che vanno osservate e non criminalizzate, adesso per la nuova premier, però, inizia il percorso più complicato. Per chi ha sempre vissuto all’opposizione, con una breve e insignificante parentesi al governo (tre anni senza produrre nulla che sia rimasto nella memoria di questo Paese), ora c’è da fare i conti con le responsabilità, con la gestione di una nazione complessa e in una situazione economica terribile. Non basteranno gli slogan o i diversivi beceri, non basterà qualche parolina o qualche accusa feroce all’Europa: bisognerà scegliere le persone giuste nei posti giusti, ma soprattutto dialogare, evitando colpi di mano e forzature. Adesso, c’è da fare i conti con l’Italia e con gli italiani, cercando di non commettere l’errore di pensare che essere eletti e avere la maggioranza in parlamento voglia dire essere la maggioranza nel Paese. Il centrodestra ha vinto, ma ottenendo il voto del 44% del 64% degli italiani.

Le opposizioni, qualora fossero unite, sono appena più indietro, e tra gli astenuti ci sono quelli che sono rimasti arrabbiati e non sono disposti a sorridere alla neopremier, soprattutto se dovesse pensare di toccare diritti, siano essi già conquistati o ancora da riconoscere, di attuare strategie repressive del dissenso, di adottare politiche economiche e del lavoro sbagliate, o intavolare rapporti internazionali pericolosi che possano compromettere la stabilità economica e politica dell’Italia. Adesso, la pacchia è finita, è vero, ma è finita per Giorgia Meloni. Che dovrà peraltro gestire un partito-persona, composto da una classe dirigente debole o persino “in prestito”, quest’ultima di gran lunga maggioritaria rispetto a quella originaria. E dovrà tenere a bada, inoltre, un centrodestra dilaniato e molto meno in salute di quello che questa vittoria mostra. La Lega potrebbe implodere, furiosa con Salvini per aver sbagliato tutto e aver favorito l’ascesa di FdI, mentre Forza Italia e Berlusconi non nascondono un po’ di fastidio per i numeri e le posizioni di Meloni.

La voglia di cambiare la Costituzione potrebbe tenere unite le forze che compongono la destra. Ma non è tutto così facile come sembrerebbe. Non lo è mai stato per nessuno, nemmeno per personaggi che avevano numeri migliori, poteri maggiori, radicamento e forza economica imparagonabili. Giorgia Meloni si proteggerà alzando il tiro su migranti, diritti civili, libertà di espressione e manifestazione? Può darsi, soprattutto se la situazione internazionale produrrà effetti violenti sulla nostra economia. Ma alla fine, se non saprà governare al meglio, con interventi concreti su lavoro, economia, welfare (ambiti rispetto ai quali le ricette del centrodestra appaiono le solite, vecchie e fallimentari), il bluff non riuscirà e, allora, anche gli amici lasceranno la festa. E anche piuttosto in fretta.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org