La triscele viene da lontanissimo. Il termine, come è normale che sia, ha radici greche, ma la sua essenza va localizzata a migliaia di chilometri da dove la sua più antica testimonianza è stata rinvenuta, per trovarsi oggi esposta nel Museo Archeologico di Agrigento.
La chiamiamo “Trinacria”, per lo più, e qualche giorno fa l’abbiamo vista sventolare nella Valle San Martino, in provincia di Bergamo, lì dove nasce il Po. A Pontida. C’erano siciliani a Pontida, e manco pochi. C’erano siciliani con quella bandiera al vento, a urlare contro i popoli, contro le pelli, per quella che considerano un’invasione. Urlavano contro i popoli in un coro che partiva dalla gola di Matteo Salvini. Urlavano anche loro, loro che geneticamente sono un miscuglio di popoli. Come me.

Mentre la triscele si gonfiava sul fondo dei colori che richiamano Palermo e Corleone, il rosso e il giallo, lì nel ventre del vento che soffiava sul Po, io me ne stavo a raccogliere l’umidità calda e avvolgente del Canale di Sicilia, affacciato sull’acqua e con le spalle rivolte all’imponente bellezza della Cattedrale del Santissimo Salvatore, luminosa meraviglia di stucchi e colori che si staglia su un antico piano di ficus disteso a pochi metri dal mare, col verde brillante delle foglie a ripararti da un caldo imperante. Un caldo che per usucapione ha preso la terra a ricordare ogni giorno dell’anno che l’Africa se ne sta solo a qualche centinaio di chilometri, e da quella parte il sole ha lo stesso colore.

Mazara è la Sicilia, la Sicilia è Mazara. La Sicilia non può essere quella di Pontida, perché la sua anima non può urlare contro i popoli. È come se imponessimo a noi stessi di specchiarci sempre a mezzobusto, ignorando volutamente le nostre gambe. Ma le gambe ci sono. La Sicilia è Mazara perché Mazara è un meraviglioso melting-pot di etnie. La sua casbah è un incredibile miniatura del mondo: suona il muezzin per arabi ed ebrei nello stesso istante. Volti l’angolo e trovi Tunisi, e un metro dopo c’è ancora Italia. La Rua della Giudecca, una piccola via lucente alle porte del quartiere arabo, ti ricorda (scritto su un miscuglio di maioliche, un miscuglio delle tantissime maioliche diffuse per il centro storico) che lì già secoli e secoli fa vivevano in pace i latini con i greci e i musulmani.

E a chi volesse obiettare che Mazara è un caso isolato in un’isola che è solo il culo del Mediterraneo, basterebbe far fare un salto sui Nebrodi, nel minuscolo centro di Ficarra, in uno scenario diametralmente opposto a quello della Sicilia Occidentale: le sue stradine medievali, ricchissime anch’esse di storia e di memorie di donne e uomini, ti portano, percorrendole, su un muro che trova incastrate piccole terracotte sulle quali è incisa in più lingue la parola “pace”, a ricordare che l’inclusione quest’Isola ce l’ha nel Dna. Dappertutto.

Ma come diavolo si fa a perdere gli umori del sangue, a obbligare la testa a non voltarsi indietro? Come si fa a strapparsi via la pelle, a dimenticare il mare, a cancellare la propria lingua? E come si fa a urlare contro i popoli mentre si sventola una bandiera che grida da millenni che i popoli sono uguali?

Seba Ambra -ilmegafono.org