“Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta, ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”. Sono proprio queste parole, rilasciate durante un’intervista al giornalista de L’Ora, Mauro de Mauro, quelle con le quali abbiamo deciso di ricordare Serafina Battaglia, prima donna siciliana ad aver abbattuto il muro dell’omertà mafiosa.  La storia della Battaglia è una di quelle storie dell’antimafia che non hanno mai avuto il seguito e il riconoscimento che avrebbero meritato. Già all’epoca, infatti, la donna dovette combattere un’omertà diffusa, compresa quella della propria famiglia, nonché il fallimento di tutti i processi a carico di esponenti mafiosi. Nonostante ciò, la scelta della Battaglia e la sua opera di cambiamento, prima di tutto su se stessa, hanno fatto sì che si avverasse una vera e propria rivoluzione nell’ambito della denuncia mafiosa, specie tra le donne.

Nel 1960, nel corso di una faida mafiosa a Gadriano (PA), viene ucciso Stefano Reale, marito di Serafina e uomo mafioso di spicco del posto. Proprio in quegli anni, la stessa Battaglia era solita partecipare alle diverse riunioni di mafiosi che si tenevano in casa propria, a dimostrazione di una conoscenza del mondo criminale ampia e dettagliata. Nonostante la perdita del marito, Serafina non decise di denunciare, ma si chiuse nel proprio bozzolo di vendetta e di rabbia al punto tale da portare il figlio (avuto con il marito precedente) a vendicare il truce assassinio del patrigno. Ciò è dimostrato da una testimonianza di un noto collaboratore di giustizia, Antonino Calderone, secondo cui Serafina, tutte le mattine, avrebbe svegliato il figlio con le seguenti parole: “Alzati che hanno ammazzato a tuo padre! Alzati e valli ad ammazzare”. Nel 1962, il figlio viene ucciso nel corso di un agguato da egli stesso teso nei confronti dei mandanti dell’omicidio del padre: da quel momento in poi, la vita di Serafina cambia completamente.

La donna decide di parlare, di svuotare il sacco, di dar voce a parole, gesti, fatti e, soprattutto, segreti che altrimenti sarebbero rimasti nascosti. Serafina Battaglia rivela i nomi dei mafiosi più importanti, la sua denuncia fa sì che vengano istituiti processi su processi, ma, cosa ben più importante, inizia a instaurarsi una consapevolezza diversa nell’Italia del tempo. Bisogna infatti ricordare che si trattava degli anni ‘60 e ‘70, periodo storico in cui parlare di mafia non solo era pericoloso ma anche inusuale. Gli anni di piombo stavano per sconvolgere l’intero Paese; gli omicidi di mafia continuavano a perpetrare uno stato di terrore generalizzato (molto più spesso al Sud). Nonostante tutto, una donna, una donna di mafia come Serafina Battaglia, decise cambiare e di dire la sua. Di dire basta e svelare tutto.

“Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo”, si legge nell’intervista rilasciata a De Mauro, “parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno a uno”. “So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto”. “I mafiosi sono pupi – continuava – fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi: non sono uomini d’onore ma pezze da piedi”. Durante la sua lotta a quella mafia che per tutta la propria vita aveva difeso e che adesso, invece, voleva distruggere, venne appoggiata solo dal giornalista de Il Giornale di Sicilia, Mario Francese, e dal giudice Cesare Terranova, entrambi poi uccisi dalla mafia nel 1979.  Nonostante facesse fatica a trovare un avvocato disposto a difenderla (questo era il livello di coscienza antimafiosa di quegli anni), Serafina riuscì a testimoniare in diversi tribunali d’Italia, raccontando di omicidi, strutture e strategie mafiose e tutto ciò che potesse risultare utile alla giustizia.

Tanto sforzo, tanta rabbia e sete di giustizia, però, risultarono vani, almeno da un punto di vista prettamente giudiziario. Tutti gli imputati dei diversi processi vennero assolti, compreso quel Vincenzo Rimi che all’epoca era uno dei boss più importanti della mafia siciliana, nonché mandante dell’omicidio del marito di Serafina. Per la Battaglia iniziò così un lungo periodo di silenzio e abbandono, un abbandono dovuto anche all’assenza dello Stato che mai, in nessuna occasione, le mostrò vicinanza o appoggio. La donna morì all’interno del proprio appartamento, a due passi dal Tribunale di Palermo, dimenticata e sola, nel 2004. Una fine triste, tristissima per una persona coraggiosa, forte e rivoluzionaria che ha avuto il coraggio di cambiare strada e ha tentato di colpire la mafia. Il suo esempio è stato d’insegnamento per tante donne e tanti altri cittadini. Serafina Battaglia è stata la prima a rendersi conto che la giustizia era più importante del destino che la vita aveva scelto per lei. Ebbe il coraggio di ribellarsi alla mafia e anche alla vecchia se stessa. Per questo la sua storia merita di essere raccontata.

Giovanni Dato -ilmegafono.org