Partanna è un piccolo comune della provincia di Trapani. Il suo centro urbano risale al Medioevo, sebbene nella stessa area vi siano tracce di un insediamento capannicolo della media età del Bronzo. Nel territorio sono numerosi i siti che hanno restituito resti di insediamenti preistorici o di età protostorica. Di notevole importanza il Castello Grifeo, sede del Museo Regionale di Preistoria del Belice – Centro di interpretazione e valorizzazione territoriale. In questo piccolo comune “regna” da molti anni la famiglia mafiosa degli Accardo, i “Cannata”, come vengono chiamati nella ‘ngiuria (il soprannome); una famiglia coinvolta nelle varie guerre di mafia, alleata dei corleonesi, legata a Matteo Messina Denaro e coinvolta, di recente, anche nell’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose a Milano per Expo 2015.  Legata alla storia dei “Cannata” Accardo è la vicenda di Piera Ajello e di sua cognata, sorella del marito, Rita Atria.

Rita, nata a Partanna il 4 settembre 1974, è figlia di Vito Atria, mafioso della famiglia Accardo, ucciso nel 1985, sorella di Nicola Atria, pure lui affiliato, ucciso a Montevago. Rita aveva visto da vicino la guerra di mafia e, dopo la morte del padre e del fratello, marito di Piera Ajello, aveva deciso, insieme alla cognata, di raccontare tutto al giudice Paolo Borsellino. “Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”, le aveva detto ripetutamente la madre, Giovanna Cannova, ma la ragazza aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, confida, racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l’ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto. Ogni giorno, per tanti giorni, prende l’autobus da Partanna per Sciacca, ma invece di andare a scuola va a deporre in Procura. La sua confessione (anche se il termine non è corretto, in quanto non si tratta di una pentita e nemmeno di una collaboratrice di giustizia, ma di una testimone), si trasforma in una lunga seduta di liberazione psicologica e spirituale.

Rita Atria aveva amato suo padre, lo aveva mitizzato, ne era quasi orgogliosa, fino a quando, attraverso il confronto con due giovani pubblici ministeri, Morena Plazzi e Alessandra Camassa, cominciò ad aprire gli occhi. Si ritrovò ad un tratto orfana di padre, anche nel ricordo, e orfana di una madre che non l’aveva mai voluta, che non l’aveva mai amata e che voleva abortire quando si è accorta di essere incinta. Orfana, dopo pochi anni, anche del fratello a cui si era legata. Lo strappo è davvero straziante. “La nuova dimensione di Rita ne ridisegna il modo di pensare, di vestire, perfino il suo aspetto fisico”, scrive Gaetano Savatteri. Rita dimagrisce, ha voglia di studiare, vuole lasciare la Sicilia e la madre, cambia aspetto, tiene un diario dove scrive come dovrà essere il suo funerale, poiché l’idea della morte appartiene al suo mondo.

La madre, a questo punto, diventa più rabbiosa, più violenta, denuncia il giudice Borsellino per sottrazione di minore, si vergogna del tradimento della figlia. Per questa madre è un affronto che non si può giustificare. Dice cose terribili a Rita: “Ti farò fare la fine di tuo fratello”. Il magistrato ha con questa donna una pazienza infinita. Il giudice Borsellino diventa per Rita la figura maschile autorevole, il padre che protegge, aiuta, comprende, ascolta. Alla fine di novembre del 1991, Rita viene trasferita per motivi di sicurezza, insieme alla cognata e alla nipotina, a Roma, sotto scorta e protezione. Cerca di ricostruire una vita e un’identità. Il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, un’autobomba distrugge e uccide il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Borsellino, per Rita, era il suo nuovo vero padre.

“Chiamami quando vuoi – le aveva detto -, quando hai bisogno di qualcosa, quando ti senti sola”. La morte del magistrato sarà per Rita un dolore lancinante e insopportabile da gestire. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura, ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”, scrive nel suo diario.

Il 26 luglio 1992 a Roma, quartiere Tuscolano, alle cinque del pomeriggio, Rita Atria si lancia dal settimo piano e si uccide. Vola giù senza urla, schiantandosi al suolo, vestita con un pigiama. La madre di Rita non partecipa ai funerali e tre mesi dopo, il 2 novembre, nel giorno dei morti, Giovanna Cannova, con un martello, colpisce e sfregia la tomba della figlia, spaccandone la fotografia. Savatteri scrive, nel suo libro “Le siciliane”, edito da Laterza, che Rita “ha chiesto, nel suo diario, di essere sepolta vestita di nero, pantaloni e camicia, con un papillon rosso. I vestiti neri del lutto siciliano, i pantaloni da uomo per una ragazza orfana di figure maschili e il papillon rosso simbolo di un ironico anticonformismo: inconsueto abbigliamento funebre in una Sicilia dove alcune giovani donne defunte venivano ancora sepolte in abito da sposa”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org