Nelle ultime settimane, la polemica sulle carceri è nuovamente infiammata. Dopo le rivolte del mese di febbraio è arrivata la notizia della scarcerazione di 376 delinquenti riconducibili ad associazioni criminali, tra cui spiccano nomi di personaggi di enorme rilevanza nei ranghi di camorra (Pasquale Zagaria), cosa nostra (Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza) e ‘ndrangheta (Vincenzo Iannazzo). Tutto questo in nome dell’emergenza Covid-19, per la quale molti magistrati sono stati costretti a convertire momentaneamente le pene detentive in arresti domiciliari, senza poter accedere a soluzioni intermedie a causa della poca tempestività del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria nell’accordarle. Il Dap è uno dei quattro principali organi del ministero della Giustizia. Il capo di questo dipartimento viene scelto direttamente dal ministro della Giustizia.

Da qui le critiche arrivate soprattutto dalle opposizioni ad Alfonso Bonafede, il cui ministero non è riuscito ad evitare questa misura che senza dubbio agevola i criminali, che, liberi da un regime di strettissima sorveglianza, potrebbero riprendere le loro posizioni di potere, ricominciando a dare ordini dalle proprie abitazioni. Un caso piuttosto evidente delle difficoltà del Dap è senza dubbio quello relativo al Tribunale Penitenziario di Sassari, che aveva richiesto il trasferimento di Zagaria in un centro medico penitenziario, ma la risposta del Dap in merito è stata così tardiva da arrivare un giorno dopo la sentenza di commutazione della pena dello stesso Zagaria.

Si è arrivati così alle inevitabili dimissioni di Francesco Basentini dalla guida del Dap, anche per placare le polemiche su una gestione non proprio felice. Ciò evidentemente non è bastato e a gettare benzina sul fuoco ci ha pensato Nino Di Matteo, consigliere del CSM e presidente della sezione di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati, giudice da sempre in prima linea nella lotta alla mafia. Di Matteo, intervenuto alla trasmissione di La7 “Non è l’Arena”, ha rivelato un fatto risalente al 2018, quando Alfonso Bonafede gli propose di assumere l’incarico di capo del Dap.

Secondo il magistrato, nelle successive 24 ore il ministro si sarebbe lasciato influenzare dalla reazione di alcuni capimafia che dal carcere avevano commentato con un laconico “se nominano Di Matteo è la fine”. Al punto che, quando Di Matteo comunicò al ministro la decisione di accettare l’incarico, questi decise di tornare sui suoi passi proponendogli un incarico che all’epoca fu di Giovanni Falcone, ma che oggi assume minore rilevanza e non sarebbe stato comunque disponibile in quel momento, quello di Direttore Generale degli affari penali.

Il ministro Bonafede è ovviamente intervenuto a smentire qualunque tipo di influenza esterna nell’esercizio delle sue funzioni, confermando i fatti narrati da Di Matteo su La7, ma respingendone le congetture. Purtroppo per com’è andata c’è da chiedersi se quella di Bonafede fu una buona decisione e soprattutto cosa abbia portato una personalità del calibro di Nino Di Matteo a sbilanciarsi fino a questo punto nell’attacco all’attuale ministro della Giustizia, che resta più che mai nell’occhio del ciclone. Una nota a margine in questo scenario ancora poco chiaro, la meritano senz’altro le stesse opposizioni che adesso usano le dichiarazioni di Nino Di Matteo, che attaccavano senza mezzi termini ai tempi del processo a Dell’Utri, per chiedere le dimissioni di Bonafede. Da nemico a baluardo: ai tempi del Covid la memoria è ancora più corta e i fatti politici, come le parole, se li porta via il vento.

Vincenzo Verde -ilmegafono.org