“Ritira la decisione, applica la Convenzione!”, questo il grido di migliaia di donne turche che in questi giorni sono scese in piazza per protestare contro la decisione del presidente Erdogan di ritirare il Paese dalla Convenzione di Istanbul. Accanto a loro, virtualmente, centinaia di migliaia di associazioni, attiviste e attivisti per i diritti umani in tutto il mondo mostrano sconcerto per la mossa meschina del governo turco. Con un decreto pubblicato in piena notte, infatti, pochi giorni fa la Turchia ha annunciato il ritiro dalla “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” (meglio nota come Convenzione di Istanbul). La Convenzione, che nel maggio 2011 era stata aperta alle firme proprio nella città turca, ad oggi è stata ratificata da 34 Paesi dell’UE.

La struttura della ratifica italiana si può sintetizzare sulle “Quattro P” (Prevenzione, Protezione e aiuto alle vittime, Procedimento contro i colpevoli e Politiche integrate). Promulgata e diffusa da allora, è fieramente considerata uno standard internazionale per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. Secondo Erdogan il trattato incentiverebbe il divorzio minacciando i valori della famiglia tradizionale, mentre i temi di uguaglianza di diritti umani sarebbero usati per la propaganda dalla comunità LGBTQ+. Motivazioni, queste, in linea con le politiche portate avanti dal lato conservatore del Paese.

La ministra per la Famiglia, Zehra Zümrüt Selçuk, ha inoltre affermato che “i diritti delle donne in Turchia sono già garantiti nella legislazione”, quindi la Convenzione sarebbe inutile. Mentre, come riporta l’ANSA, la figlia del presidente, Sumeyye Erdogan, in qualità di vicepresidente e portavoce di Kadem (Associazione delle donne islamiche) ha dichiarato: “La Convenzione di Istanbul è stata un’importante iniziativa per combattere la violenza contro le donne. Al punto in cui siamo arrivati, ha ormai perso la sua funzione originaria e si è trasformata in una ragione di tensioni sociali. Consideriamo la decisione del ritiro (della Turchia, ndr) come una conseguenza di queste tensioni”.

Affermazioni con le quali le donne turche non sembrano essere d’accordo, dato che in migliaia in tutta la Turchia sono scese in piazza a manifestare, nonostante il gravissimo pericolo Covid-19. Le manifestazioni più consistenti si sono registrate a Istanbul, Ankara e Smirne, le cui strade si sono colorate di viola con le bandiere della piattaforma turca “We Will Stop Femminicide” (Noi Fermeremo il Femminicidio) che ha registrato solo nel 2020 circa 300 casi di femminicidio. La Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric, dichiara che non è stato ricevuto alcun avviso da parte del governo turco su questa decisione che considera essere “un enorme passo indietro che compromette la protezione delle donne in Turchia, in Europa e anche oltre”.

Che questa decisione sia una mossa politica dettata dalla volontà di strizzare l’occhio a Polonia, Ungheria (che da qualche tempo minacciano il ritiro dalla Convenzione) e Russia (che la firma non l’ha mai messa), o che faccia parte di un presunto “piano più grande”, come chi sostiene che ci sia un collegamento tra questa scelta e il licenziamento del governatore della Banca Centrale, Naci Agbal, è ancora presto per dirlo. Ciò che è certo è che il ritiro dalla Convenzione di Istanbul da parte di uno Stato dopo appena nove anni può essere percepito come una grave minaccia per i diritti umani. Perché nove anni sono pochi per affermare che una società ne ha assimilato le norme fino a trarne dei buoni comportamenti, specialmente una società che registra 300 femminicidi l’anno. Specialmente se migliaia di donne, mogli, madri, figlie, sorelle, colleghe, scendono in strada mettendo a rischio la loro vita e quella dei propri cari. Perché l’unica scelta che resta loro è quella di morire intubate o morire ammazzate.

Sarah Campisi -ilmegafono.org