Giuseppe Alfano, conosciuto da tutti come Beppe, non era un eroe ma semplicemente un giornalista, malgrado non avesse mai ricevuto l’apposito tesserino. Un uomo a cui il giornalismo e l’amore per la ricerca della verità e per la sua diffusione scorrevano nelle vene. Aveva un’innata capacità “investigativa” ed insieme un coraggio non comune. Nelle sue inchieste si occupava di mafia, politica collusa e massoneria e lo faceva nella Sicilia dei primissimi anni ‘90, in pieno periodo stragista e, per di più, a Barcellona Pozzo di Gotto, un paese in provincia di Messina considerato da sempre un piccolo paradiso terrestre per boss e latitanti. Beppe Alfano indagava e smascherava i retroscena mafioso-politici di Barcellona mentre quest’ultima offriva ossequioso ed omertoso riparo al boss Nitto Santapaola, “zio Filippo” (circostanza notata e portata all’attenzione degli inquirenti proprio dallo stesso Alfano).

Lo faceva consapevolmente e continuò a farlo anche quando fu avvicinato da personaggi loschi che tentarono dapprima di corromperlo offrendogli del denaro e poi di spaventarlo minacciandolo di morte. Beppe Alfano fu ritrovato morto, la notte dell’8 gennaio del 1993, all’interno della propria Renault rossa, freddato da 3 colpi di pistola in testa. L’omicidio era stato preceduto da una circostanza misteriosa: quella sera, nel rincasare con la moglie, Alfano notò qualcosa, non diede spiegazioni alla moglie ma le disse di chiudersi in casa e andò via frettolosamente. Le indagini sull’omicidio sono state complicate, gestite in maniera anomala. Anomalo il sequestro di tutti i suoi documenti da parte dei servizi segreti la notte stessa della sua morte, anomale le manomissioni al suo computer come se si fosse cercato di fare sparire qualche documento, come se qualche “verità” scoperta da Alfano dovesse in qualche modo rimanere taciuta.

Le piste che gli inquirenti intrapresero – recita il sito dell’Associazione familiari vittime di mafia – dopo la sua morte furono molteplici e molte delle quali possono essere definite veri e propri depistaggi a mezzo istituzionale”. In un primo momento il movente dell’omicidio fu individuato nell’inchiesta sull’Aias (furono condannati come mandante il boss Gullotti e come esecutore Antonino Merlino), poi nell’inchiesta che aveva fatto luce sugli interessi economici mafiosi e massonici nel commercio degli agrumi. Le indagini hanno poi subito una nuova “scossa” con le rivelazioni del pentito Carmelo D’Amico, il quale avrebbe confessato agli inquirenti la totale estraneità di Merlino ai fatti dell’8 gennaio indicando altri presunti responsabili. “Mio fratello – avrebbe detto il collaboratore di giustizia – dopo che uscì dal carcere nel 1995 mi disse che quell’omicidio non era stato commesso da Antonino Merlino, che dunque era stato arrestato un innocente e che l’esecutore materiale di quel fatto di sangue era stato, in realtà, Stefano Genovese”.

Mi pare di ricordare – avrebbe aggiunto D’Amico – che Carmelo mi disse anche che all’omicidio Alfano aveva partecipato tale Basilio Condipodero, soggetto anche lui affiliato ai barcellonesi”. Queste dichiarazioni hanno ovviamente avviato un nuovo filone di indagini, l’ Alfano ter, per il quale però, lo scorso luglio, è stata presentata dalla Procura di Messina la richiesta di archiviazione. Secondo il procuratore, Vito Di Giorgio, “la pista investigativa che si è concentrata su Stefano Genovese e Basilio Condipodero si è dimostrata poco concreta in termini di rilevanza probatoria”, poiché non sarebbero emersi fatti in grado di supportare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia. I familiari di Beppe Alfano, tramite il loro legale, Fabio Repici, hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione chiedendo che si indaghi maggiormente sulle dichiarazioni dei pentiti ma anche sui legami tra la latitanza del boss Santapaola e la morte del loro congiunto.

“L’omicidio Alfano – ha dichiarato l’avvocato Repici – è stato il crimine sul quale maggiormente gli organi istituzionali hanno mostrato il loro volto peggiore, con la commissione di sconvolgenti omissioni e veri e propri depistaggi”. In attesa che il prossimo 28 novembre il Gip di Messina si esprima sulla richiesta di archiviazione, è doveroso ricordare che la sera dell’8 gennaio 1993 un uomo fu strappato alla propria famiglia in modo violento ed ingiusto e che la ricerca della verità e della giustizia non hanno una data di scadenza. Non è mai troppo tardi per conoscere la verità e non è ammissibile che con gli strumenti investigativi di cui si può ormai disporre non si riescano a ricostruire  i fatti di quella terribile notte.

Anna Serrapelle-ilmegafono,org