L’estate ormai agli sgoccioli ci ha mostrato una appendice orribile. Una devastante ondata di violenza si è abbattuta su ragazze e ragazzi molto giovani. Orrori raccapriccianti, omicidi, violenze sessuali, scenari che, malgrado la realtà ce li abbia vomitati in faccia più volte, non ti aspetti mai davvero che accadano al di fuori delle finzioni cinematografiche. Il caso di Willy Duarte, quello delle due minorenni violentate nel materano, l’uccisione transfobica di Maria Paola Gaglione, rea di amare un’altra persona, quel Ciro che aveva solo scelto di essere se stesso, di vivere secondo la sua natura. Storie che toccano e come sempre spingono purtroppo questo Paese nell’emozione più che verso un necessario ragionamento. Un’emozione fatta di dolore e lacrime, di rabbia per quell’ingiustizia, per la violenza spietata che cancella ogni valore umano, ogni empatia verso il prossimo.

Willy e il suo sorriso hanno colpito al cuore una buona parte degli italiani. Il suo gesto, il suo alto senso di civiltà, il suo essere un ragazzo già maturo, un uomo di pace che ha scelto, a sue spese, di non voltarsi dall’altra parte: tutto questo ha toccato le corde emotive di un Paese che, già poche ore dopo l’arresto dei quattro aggressori e assassini, ha reagito furiosamente. I social, ad esempio, si sono riempiti di minacce, offese, auguri macabri, violenza verbale, tutto sputato in faccia, o meglio sotto le facce e le foto dei quattro giovani vigliacchi che hanno deciso di sfogarsi sul corpo di un ragazzino esile e pacifico. Violenza che chiama violenza. Emotività che trasuda da chi, magari, davanti al pestaggio sarebbe rimasto immobile, impaurito, incapace di buttarsi nella mischia per difendere quel ragazzo. La rabbia virtuale nei confronti di chi con infame codardia ha spezzato la vita di un giovane, è comprensibile, per carità, ma a cosa serve?

Serve a ragionare, a capire? Serve a ricordarsi che Willy è morto proprio per dire no all’odio, per mettere pace, per fermare la spirale dell’insulto, del bullismo, della violenza? No, non serve. La violenza, da qualsiasi parte venga, non serve mai. Non produce mai nulla di positivo. Soprattutto ci fa perdere di vista tante altre cose, molto più importanti e utili. Che riguardano dimensioni culturali e politiche. Culturali perché, fino a quando continueremo a leggere ed ascoltare che Willy “si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, allora non capiremo cosa è accaduto davvero. Non capiremo mai fino a quando non avremo una chiara distinzione tra chi è responsabile e chi non lo è.

Willy non si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, perché lui stava agendo da giusto. Ha scelto di fare ciò che altri, per paura o vigliaccheria, non fanno. Ha scelto di mettere pace, di non fregarsene. Chi era al posto sbagliato erano gli assassini, così come quelli che li hanno chiamati e coinvolti. Sono loro l’errore di una società che ha smesso di produrre valore umano, annegandolo nel superficiale e nell’orrido quotidiano. Sono loro gli scarti di una società difettosa, nella quale l’estetica (con canoni sempre più dozzinali e al ribasso) e la forza bruta prevalgono sempre più sull’etica e sull’intelligenza, sul sapere e sull’empatia. Willy è la parte sana di questa società globalmente malata, ossessionata dall’immagine ad ogni livello. Un’immagine che è diventata una dittatura alla quale in troppi si sono asserviti. Soprattutto i media e la politica. Ciò che prima era solo entertainment oggi è spacciato per informazione e politica.

La politica, appunto, il tasto dolente. Quella che accomuna tutti gli episodi orribili di questa fine d’estate. La politica colpevole che davanti ai morti o alle vittime di violenza si limita a condannare, in parte e in modo più o meno convinto, a esprimere emozione e null’altro. Magari scappa qualche richiesta di condanne pesanti o leggi restrittive, ma non c’è spazio per le proprie responsabilità. Willy, suo malgrado, ha dato una lezione di dignità e coraggio. Non è un eroe e anche il solo fatto di etichettarlo così significa ancora una volta rimanere bloccati nell’emozione, rinunciare a capire. Willy ha fatto quello che ciascuno di noi dovrebbe fare. Non solo noi cittadini, ma anche e soprattutto chi ha responsabilità politiche. Negli ultimi anni in Italia è stata sdoganata una pericolosa sottocultura fascista, della quale machismo, omofobia e razzismo sono gli ingredienti principali.

Ingredienti cucinati in diretta tv, web, social, in ogni momento della giornata, da ogni parte d’Italia, sputati fuori dalle bocche di chi pensa di riportare indietro la storia. A coloro i quali, distraendosi per un attimo dal quotidiano ruolo di fomentatori di odio, hanno commentato l’uccisione di Willy con falso dispiacere, andrebbe chiesto cosa ne pensano dei motivi razziali, delle mentalità becere che emergono da vecchi post dei quattro assassini. Dovrebbero spiegarci cosa ne pensano delle idee fascistoidi e razziste degli aguzzini di Willy. E, intanto, dirci cosa ne pensano della sottocultura omofobica del fratello di Maria Paola, che non tollerava la sua vita sentimentale con un uomo che all’anagrafe era nato donna. Magari potrebbero chiedersi se il modello machista, che loro promuovono e che risiede dentro le pseudoideologie alle quali si ispirano o con le quali si alleano sottobanco, ha creato l’humus ideale per lo sviluppo di una società che, dal berlusconismo in poi, ha vissuto in simbiosi con una politica di basso livello, nella quale andare oltre il limite della decenza è divenuto un metodo ricercato e un merito riconosciuto.

Ecco, a loro, ai politici e ai giornalisti e alle testate che fanno da amplificatori e che, in queste settimane, hanno offerto ancora una volta il peggio di sé, andrebbe fatto capire che questo non è un semplice caso di cronaca da commentare con un tweet di commozione e soprattutto che al posto sbagliato al momento sbagliato non c’era Willy. Al posto sbagliato al momento sbagliato ci sono loro, le loro ideologie stagnanti e il loro esercito di odiatori.  E non solo per una maledetta sera, ma per ogni dannato giorno in cui scelgono di essere cattivi maestri di un Paese allergico alla responsabilità collettiva.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org