“…A sera, quando il sole calava e sui vetri delle case splendeva stanco il sole dei suoi raggi, la fabbrica espelleva gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie inservibili, ed essi ripercorrevano la via, affumicati e con le facce annerite… Un’altra giornata era stata cancellata per sempre dalla vita”. (Maksim Gor’kij – La Madre). Era il 1906, l’alba del Novecento.

Oggi, quegli uomini “espulsi dalle sue viscere di pietra come scorie inservibili” esistono ancora, negli angoli della nostra quotidianità: sono in tante fabbriche, nei cantieri dove le impalcature crollano sotto il peso della fatica e della mancanza di protezione, nei campi dove i “caporali” al servizio dei padroni di sempre comprano i nuovi schiavi per il raccolto di stagione e decidono quante ore di lavoro, sottopagato e fuori dalle regole, devono fare prima di crollare a terra; sono nel lavoro sommerso negli scantinati delle città, nella ragnatela infinita di contratti infami diventati una regola intoccabile, sono nelle esternalizzazioni e negli stage. Sono il nome e il cognome nell’elenco e nel numero a quattro cifre dei morti sul lavoro, l’infinita vergogna di un sistema dove il profitto è la sola religione. La storia ci ricorda date che non dovremmo dimenticare mai: il 1° Maggio, in tutto il mondo, è il riconoscimento che il mondo del lavoro ha conquistato sul campo e non è una data casuale ma pagata con la vita, per un pezzo di pane e di dignità.

Il 1° maggio 1886, a Chicago, una grande manifestazione operaia venne repressa nel sangue e, nei giorni seguenti, altri scioperi e scontri porteranno altri morti. Erano i giorni dei “martiri di Chicago”: sedi sindacali distrutte e la prigione per i sindacalisti. In Italia, il primo accordo con la Confederazione degli industriali, per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere e 48 settimanali, venne firmato il 20 febbraio 1919, ma la lotta per le otto ore è ancora più antica: la costruirono le donne che si consumavano nelle risaie di Vercelli, le mondine, che nel giugno del 1882 proclamarono il primo grande sciopero delle risaie, una lotta conclusa nel 1906. L’accordo del febbraio 1919 prevedeva il riconoscimento delle Commissioni interne in ogni fabbrica.

In Italia la giornata del 1° Maggio venne celebrata per la prima volta nel 1891, poi il ventennio fascista la cancellò e la sostituì con il Natale di Roma, il 21 aprile, per festeggiare “il lavoro italiano”. Solo nel 1947 si restituì quella giornata al suo vero valore. Ma quel 1° Maggio, a Portella della Ginestra, diventò la prima pagina del libro nero delle stragi dell’Italia Repubblicana uscita dalla guerra voluta dal regime fascista: quel giorno la festa dei lavoratori si trasformò in un prato macchiato dal sangue dei lavoratori. Una strage firmata da Salvatore Giuliano e dalla sua banda che mise a nudo i legami tra la mafia, il sottobosco latifondista e una parte consistente della classe politica. Quella strage fu un chiaro ammonimento che i lavoratori dell’Italia Repubblicana ricevettero: non alzate la testa, state al vostro posto. I lavoratori la testa non l’hanno mai abbassata e, un giorno alla volta, una battaglia alla volta, hanno costruito con dignità e orgoglio di classe la stagione dei diritti.

È una storia scritta partendo dai gradini più bassi della società, costruendo quella coscienza collettiva che è la base di ogni cambiamento e conquista sociale, e che ha visto nel sindacato l’indispensabile guida politica. Non era facile costruire un sindacato ed essere dalla parte dei lavoratori nel ventennio. Come non ricordare le parole con cui un grande uomo come Giuseppe Di Vittorio, che quel sindacato aveva saputo immaginare e costruire, si presentò in Parlamento nel 1921: “Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: ‘Un cafone in Parlamento’. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”.

Oggi c’è chi sostiene che la lotta di classe non esiste più, che appartiene al passato. Non è così, le disuguaglianze sociali esistono ancora e scavano un solco sempre più grande. Accanto alla classe operaia, protagonista delle grandi battaglie civili e delle conquiste nel Novecento, camminano ora nuovi soggetti: il mondo del lavoro e il contesto sociale sono cambiati e le nuove forme di sfruttamento del lavoro spingono ai margini della società un numero sempre maggiore di lavoratori. L’articolo 1 della Costituzione afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ma queste fondamenta scricchiolano nelle basi, minacciate da un sistema che cancella diritti e tutele. Un sistema che svilisce e umilia il mondo del lavoro con leggi che non rendono giustizia a chi conosce ogni aspetto della fatica nelle fabbriche, nelle campagne e in ogni settore della catena lavorativa. Il capitalismo non ha un’anima, non l’ha mai avuta, sfrutta ogni pietra del pianeta e ogni goccia di sudore e di fatica.

È la logica del profitto, più forte di qualunque legge dello Stato, soprattutto quando lo Stato diventa un sistema che apre e chiude le sue porte solo dove individua il suo margine personale: ecco allora che, accanto alle fabbriche dimesse e delocalizzate, spuntano mille forme di contratti che umiliano le persone e dividono i lavoratori. C’è poi, da tempo, il mercato degli ultimi – soprattutto i cittadini stranieri – mai riconosciuti dallo Stato e consegnati nelle mani del caporalato e (in alcune zone) delle cosche per i lavori nelle campagne, al Sud come al Nord. Perché il caporalato non è un’esclusiva delle campagne del Mezzogiorno per la raccolta di stagione, ma esiste anche nei vigneti e in quasi tutti i comparti produttivi del ricco Nord (leggi qui).

Questo Paese ci racconta delle migliaia di morti sul lavoro ogni anno, che si aggiungono ai troppi che hanno pagato il conto all’amianto, al fuoco della ThyssenKrupp di Torino nella notte del 6 dicembre 2007. Un Paese a volte costretto a scegliere se morire di fame o di lavoro: la città di Taranto è, oggi, il simbolo di questa scelta disumana. Era già avvenuto a Casale Monferrato, Porto Marghera, Priolo e in altre città. Lavorare in sicurezza e garantire quella sicurezza anche alle città e all’ambiente costa e il sistema non avverte questo bisogno. È una lotta contro un modello sbagliato che distrugge tutto: ambiente, natura e vite umane. È questo il volto del vecchio sistema capitalista, arricchito dal neoliberismo senza scrupoli figlio della scuola dei “Chicago boys” di Milton Friedman: privatizzazioni drastiche di aziende e beni dello Stato, riforme reazionarie del mercato del lavoro. L’obiettivo è arrivare alla più assoluta flessibilità della forza-lavoro, e quell’obiettivo è sempre più vicino: il mondo del lavoro nelle mani delle multinazionali, delle mafie locali e di cooperative che non hanno nulla del DNA dello spirito cooperativo di mutuo soccorso.

Quello che volevano i “Chicago boys” di allora e di oggi è spegnere la lotta comune dei lavoratori, non solo ottenere la rassegnazione ma anche l’assuefazione. Oggi il governo di Giorgia Meloni sceglie la data del Primo Maggio per il prossimo Consiglio dei Ministri, al cui ordine del giorno saranno inseriti provvedimenti in materia di lavoro e politiche sociali. Una scelta che appare una provocazione nonostante il tentativo di presentarlo come un’attenzione particolare verso il mondo del lavoro che non c’è mai stata. Il Primo Maggio non è solo un giorno di festa: è un giorno di lotta e di solidarietà, è guardarsi in faccia, ritrovarsi per non perdersi e continuare a credere davvero che il lavoro possa e debba camminare accanto alla dignità e all’uguaglianza, altrimenti è solo sfruttamento. Buon 1° Maggio: a chi suda e costruisce per il bene comune, anche per un Paese che a volte non merita sudore e fatica.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org