Le lacrime di Aboubakar Soumahoro, comunque le si consideri, fanno male. Perché sono il segno di una debolezza che non ti attendi, di una sofferenza profonda, di una pressione che è esplosa dentro l’ingenuità di un uomo che non ha saputo prepararsi ai meccanismi crudeli che questo Paese riserva a chi si espone, soprattutto nell’ambito della lotta per i diritti. Sono lacrime che vanno rispettate, ma che forse sarebbe stato meglio non mostrare, scegliendo di respirare un attimo prima di premere “rec” sul proprio smartphone, concentrare le proprie forze, confinare la propria rabbia e poi mostrare i propri argomenti con calma e lucidità. Le lacrime di Aboubakar fanno male perché sono quelle di chi, nella lotta per i diritti, nel portare avanti valori universali, si scontra sempre e comunque con il bastone del potere e con un’orda di sciacalli assetati. Sarebbe sbagliato tirar fuori discorsi mai sopportati su una presunta “giustizia a orologeria”, sia perché la giustizia ha i suoi tempi ed è meglio credere che non si lasci sempre influenzare dai momenti della politica, sia perché qui non siamo in presenza di indagati o reati.

Certo, è curioso che qualcosa che risalga a qualche anno fa, venga tirata fuori adesso, ma è ancora più curioso che tutto questo clamore esploda nei confronti di un uomo, Soumahoro, che non è indagato, non è direttamente coinvolto in una storia che riguarda altre persone e, a quanto pare, risale a prima che lo stesso entrasse in rapporto intimo e familiare con una di queste. Per le quali, come per chiunque, esiste la presunzione di innocenza, il diritto di spiegare, di dimostrare la fondatezza o meno di quanto emerge dalle denunce.

Allora il problema, in questo caso, non è tanto la giustizia, quanto il vizio indecente della società italiana di processare gli innocenti in piazza. E prima ancora sui giornali. In questi giorni, è possibile leggere articoli di una cattiveria e di una inutilità imbarazzante, fiumi di inchiostro sporco che travolgono, con una cattiveria spropositata e un vergognoso impeto giustizialista, un uomo innocente e perfino chi lo ha candidato o addirittura chi lo ha invitato in tv. Il solito difetto italiano, sul quale si sono costruite carriere giornalistiche immeritate. L’esatto opposto di ciò che la deontologia suggerisce, l’applicazione perfettamente contraria delle tante buone intenzioni vomitate vanamente nei tanti corsi di formazione dell’ordine dei giornalisti. Aboubakar Soumahoro è diventato così l’oggetto di chi non vedeva l’ora di “beccarne un altro” e di iniziare l’opera di demolizione non solo della sua immagine e della sua credibilità attuale, ma anche della sua indiscutibile storia passata. Una storia di impegno e lotta, un percorso di vita di chi si è ostinatamente ribellato allo sfruttamento, dando voce ai tanti che quella voce non riuscivano ad alzarla e, spesso, nemmeno a sussurrarla.

Una storia che, a differenza di come scrive qualche penna disattenta e distratta dalla sua oltraggiosa superbia, è iniziata ben prima della morte di Soumaila Sacko. Ma per sapere queste cose, bisognerebbe andare oltre il proprio mondo di riferimento, conoscere la storia dei diritti dei lavoratori e soprattutto ricordarsi di essere giornalisti e di verificare sempre quel che si scrive e si pubblica. Magari ricordarsi anche che giudicare, sulla base di legami familiari, un innocente, che peraltro non occupa alcuna posizione di potere, non rientra nelle prerogative di un quotidiano. Ciò detto ed escludendo qualsiasi retropensiero sulla giustizia, dal momento che Soumahoro dalla giustizia non è tirato in ballo, c’è qualcosa di sospetto che non si può far finta di non considerare. Perché accomuna tante storie e, guarda caso, tutte relative a persone che hanno speso la loro vita, messo in campo il loro corpo e la loro anima per difendere i diritti degli altri, di sconosciuti, di persone emarginate o vessate da un sistema crudele, istituzionalizzato e criminale che in troppi accettano. Ci sono passati in tanti da accuse, infamie, procedimenti giudiziari, qualcuno c’è ancora dentro e sta lottando affinché venga ristabilita la verità.

Mimmo Lucano, ad esempio, destinatario di una condanna esagerata, con l’accusa che in appello ha chiesto una pena elevata, seppure ridotta rispetto alla sentenza di primo grado. Si attende la decisione in appello e, nel caso, quello definitivo del terzo grado di giudizio, conclusione di un procedimento giudiziario surreale, proseguito nonostante il Riesame e la Cassazione avessero già sottolineato la vacuità delle imputazioni, l’assenza di condotte penalmente rilevanti, di riscontri ad accuse che sono basate per lo più su congetture. Intanto, però, in attesa di verdetto definitivo, Lucano è già stato condannato da una parte dei media e dalla quasi totalità della politica, cioè la stessa che ha materialmente distrutto il gioiello Riace, perché era la testimonianza di una accoglienza possibile e funzionante, ma in contrasto con il sistema politico e criminale che sul malfunzionamento dell’accoglienza, sull’emergenza perenne costruisce consenso elettorale e carriere. Stessa violenza giudiziaria l’ha subita qualche anno fa un parroco di Siracusa, padre Carlo D’Antoni, il prete dei poveri e dei migranti, messo ai domiciliari per 38 giorni senza un reato, con un’accusa per la quale la procura ha dovuto chiedere scusa e risarcire il sacerdote che da anni accoglieva gratuitamente migranti e poveri di strada.

Ma anche senza l’azione della magistratura e inchieste a volte costruite con indagini piene di strafalcioni e vuoti, si cerca ugualmente di buttare fango sulle persone che combattono e si espongono. E le si colpisce sempre sul terreno più doloroso, accusandole di fare ciò contro cui combattono. Ovviamente con il contributo di una parte degli organi di informazione e degli schieramenti politici, sempre pronti a montare il caso, a processare prima che si concluda un procedimento e, come in questo caso, anche quando il procedimento non esiste. Una strategia che vediamo anche contro associazioni e organizzazioni, come ad esempio le ong che fanno opera di soccorso in mare, accusate ancora dalla politica e dalla stampa nonostante le inchieste (spesso ridicole) abbiano già chiarito tutto. “Sicuramente nascondono qualcosa”, “nessuno fa niente per niente”: queste sono alcune delle reazioni comuni davanti al fango gettato addosso a chi lotta per i diritti.

Ed è un’infamia violenta, appiccicosa, insopportabile, soprattutto per chi ha la coscienza pulita, per chi crede che nel mondo non si agisca necessariamente per un interesse personale, ma piuttosto per servire un’idea, per rispettare un principio di umanità, un valore umano. Ecco perché quelle lacrime fanno male, perché mostrano che chi voleva colpire politicamente Aboubakar Soumahoro, non avendo nulla contro di lui, ha trovato la strada dell’infamia. Lo ha fatto sfruttando la genuina ingenuità di un uomo di lotta che si è trovato investito da decine di titoli, insinuazioni, accuse. Le lacrime non saranno un bello spettacolo, possono essere fastidiose, ma sicuramente sono umane. Ed è curioso che quelle voci che, in passato, hanno ricamato una narrazione romanzata sulle lacrime algide dell’ex ministra Fornero dopo l’approvazione di una riforma iniqua, oggi si scandalizzano per il pianto di un uomo che vuole difendere la propria onorabilità. Il sospetto più rumoroso è che a Soumahoro non si perdona nemmeno l’ingenuità perché ha la pelle nera e rappresenta le vittime che, molti dei media che oggi puntano il dito contro di lui, non hanno mai preso in considerazione o hanno addirittura denigrato, accusato di ogni cosa, con toni spesso razzisti.

Ecco perché le lacrime di Soumahoro, comunque la si pensi, sono ferite al cuore di chi osserva l’ennesimo avvio di un meccanismo che mira a screditare non solo un personaggio politico ma le idee che difende. Prima di qualsiasi discorso sull’assenza di leader a sinistra o sulle scelte elettorali, è contro questo fango, contro questo meccanismo che, indipendentemente dalla simpatia o meno per Soumahoro, bisognerebbe concentrare gli sforzi di tutti. Perché si tratta di un costume pericoloso, che da troppo tempo è diventato l’unica strategia politica vincente per far fuori un avversario e ciò che rappresenta. Sia che esploda in lacrime, sia che rimanga rinchiuso in un doloroso e lungo silenzio.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org