È bastato un post, è bastata una semplice e ingenua foto di Gianni Morandi, di ritorno dalla spesa domenicale, ad accendere le polemiche. Tralasciando l’idiozia delle offese o del gioco al massacro contro Morandi, cerchiamo di cogliere il lato positivo. Questo fatto è riuscito a far parlare nuovamente della condizione dei lavoratori della Gdo e dei temi connessi, creando dibattito e scatenando, come sempre, lo scontro fra le fazioni diverse. Da un lato, chi ritiene che la domenica dovrebbe essere giorno di riposo da dedicare al tempo libero, alla famiglia, agli amici, alle occasioni di aggregazione. O semplicemente alla propria persona. Di certo non al consumo, soprattutto se ciò significa fare il gioco di chi, in risposta alla domanda esistente, decide di tenere aperti negozi e supermercati, senza che a ciò corrisponda una maggiore tutela dei lavoratori.

Dalla parte opposta, invece, c’è chi ritiene che il mercato sia questo, che il sistema va avanti mentre gli altri vivono di nostalgie, che ci sono anche altre categorie di lavoratori che la domenica o la notte lavorano e che l’apertura prolungata o perpetua sia necessaria per tutti coloro i quali, durante la settimana, non hanno tempo per fare la spesa. Eccoli qui, in sintesi, i pro e i contro. Diritti contro modernità. Spazio umano contro consumo. Si può riassumere così lo scontro. Ma si potrebbe aggiungere un punto fondamentale: i bisogni degli uni contro i diritti degli altri. Ed è una guerra triste, perché acceca il ragionamento e lo sposta verso il basso, mentre invece andrebbe rivolto al piano generale. Ma arriviamoci con calma.

Partiamo dalla Gdo e dalla condizione del lavoratore medio. Dalle aperture domenicali, che sono passate da una o due al mese a tutte le domeniche, siamo arrivati all’apertura costante, 24 ore su 24, sette giorni su sette. Una necessità? Un modo per creare maggiore occupazione? No. Niente affatto. Semplicemente un modo per coagulare su un unico esercizio le risorse di altri esercizi che vengono chiusi. Faccio un esempio, che è frutto di un’esperienza diretta. Supermercato in una zona periferica di Milano. Catena estera. Su quel punto vendita si passa all’apertura notturna. Si convogliano lì i lavoratori di un altro punto vendita appena smobilitato. Il flusso di clienti quotidiano è aumentato, ma sempre negli orari di punta o a ridosso del vecchio orario di chiusura. File alle casse ingestibili.

Perché? Perché i lavoratori sono sempre troppo pochi per gestire tutto questo. I turni sono massacranti, gli stipendi sono rimasti gli stessi. Le donne tirano fino alle 21.30, gli uomini fanno il turno di notte, in compagnia di un sorvegliante armato. Sabato scorso, rientrando a casa da una serata con amici, mi sono fermato e sono entrato. Volevo parlare con uno dei lavoratori e capire cosa si provi a stare dentro un supermercato di notte. Mi ha detto quel che immaginavo, cioè che questa apertura è inutile. Che i turni sono pesanti, che la notte a popolare le corsie, specialmente nel fine settimana, sono ragazzi e ragazzini che entrano per comprare una cosa (la vendita di alcolici è vietata dopo le 23.30) e poi finiscono per sostare e mettersi a bere dentro il supermercato. “Ormai li lascio fare, non posso mettermi a litigare con tutti”, mi dice. Poi, mi invita a fare un giro.

Devo provare l’esperienza. Prendo una confezione d’acqua e vado alla cassa. C’è fila anche a mezzanotte. Il cassiere è uno ed è evidente che non sia fresco e riposato. Uno stormo di ragazzini paga ed esce. Il vigilante osserva e passeggia lentamente. Fuori, il nulla. In un quartiere nel quale non c’è nient’altro aperto a quell’ora, fa impressione quel santuario del consumo illuminato. È surreale. Non è stato bello stare lì dentro, anche se per appena dieci minuti. Non solo per questioni di sicurezza, ma anche perché si respirava il disagio, il senso di assurdità. Di una deriva consumistica. Un’esperienza che non ripeterei, non ho bisogno di altri test per confermarlo. C’è chi ricorda che ci sono anche altre categorie che lavorano di notte o la domenica: medici, infermieri, vigili del fuoco, poliziotti. Vero. Ma si tratta di pubblico servizio. La differenza sta lì. Non sarebbe possibile vivere senza avere un dottore in pronto soccorso in qualsiasi momento o i vigili del fuoco e i poliziotti impegnati a proteggere la nostra sicurezza.

Dei supermercati, invece, possiamo fare a meno, come abbiamo fatto fino a pochi anni fa, quando si lavorava comunque e si andava a far spesa di settimana o il sabato. Siamo cresciuti e abbiamo mangiato lo stesso. Anche senza centri commerciali o supermercati sempre aperti, anche senza estensioni notturne. Qualcuno parla di ipocrisia e, con una cantilena snervante, cita allora le tante altre categorie di lavoratori notturni o domenicali, anch’essi sfruttati o segnati da turni massacranti, come nell’industria o in altri settori. Ma c’è qualcosa che mi sfugge. Vorrei sapere qual è il senso di un’argomentazione simile. Il ragionamento è pericoloso, ma forse è solo il segno dei tempi: in poche parole, poiché lo sfruttamento è diffuso e condiviso, allora lasciamo che se ne aggiunga altro.

Sembra più un alibi, soprattutto in bocca a certi radical chic o finti sinistrorsi che i diritti degli altri li difendono a parole, fino a quando non entrano in conflitto con i propri interessi e la propria comodità. Perché è questione di comodità, diciamocelo chiaro. Conosco parecchia gente che lavora in settori diversi ed esistono poche persone che non hanno il tempo per passare da un supermercato dal lunedì al sabato, considerando che ormai quasi tutti fanno orario continuato e restano aperti fino alle 21. La verità è che, sapendo di trovarli aperti la domenica o i festivi, si preferisce rinviare. Per comodità. Alla faccia degli altri lavoratori. Come se quei lavoratori non avessero anche loro una vita, un lavoro, figli, famiglie, interessi. No. Loro devono stare lì, al servizio del nostro consumo, perché non sono gli unici a essere sfruttati. Quindi che si rassegnino.

Poco importa se nella Gdo la situazione sindacale è penosa e il ricatto dei datori di lavoro è massimo, con turnazione sregolata, riduzione di salari e ferie, licenziamenti indiscriminati, il facile giochetto della minaccia di trasferimento in sedi più scomode se qualcuno osa rivendicare i propri diritti. Non sono invenzioni, sono fatti e sono arrivati anche alla cronaca di stampa, forse nelle pagine oggi meno lette. Siamo allora giunti al punto, al tema generale che, uscendo dallo scontro e dagli insulti, andrebbe affrontato: il consumo ha soppiantato ogni principio e il lavoro, con l’estensione selvaggia dell’orario effettivo, sta rubando tempo alla vita, agli affetti e soprattutto agli interessi. Che non significa solo tempo libero per il divertimento o per il consumo stesso, come molti credono, ma anche e soprattutto partecipazione alla vita sociale e culturale, possibilità di aggregazione, cittadinanza attiva.

Invece di ergersi a difensori più o meno diretti e più o meno chic del sistema, invece di attivare sterili confronti tra sfruttati, bisognerebbe allora riflettere, comprendere che, continuando a mettere in atto comportamenti di consumo perfettamente conformi a chi detta i tempi e i modi del consumo stesso, si diventa complici di un meccanismo perverso che fagocita tutti. In primo luogo l’essere umano, i suoi spazi vitali e il sacro principio della solidarietà sociale.

Invece di affermare che il mondo va così, che il sistema è questo, sarebbe allora il caso di chiedersi, piuttosto, se quella di massimizzare il consumo e comprimere il tempo extra lavorativo, ossia il tempo di vita, non sia una strategia per trasformarci da cittadini in sudditi o in individui egoisti e indifferenti. Isolati socialmente e per niente solidali. Il sospetto è forte, così come forte è la sensazione che tale strategia sia perfettamente riuscita, conquistando anche quelle parti della società che un tempo combattevano per il pieno sviluppo dell’essere umano e per i diritti di tutti.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org