Non necessita di troppe presentazioni Giovanni Brusca, “u verru” (il porco), come lo avevano soprannominato i “colleghi” mafiosi per la sua natura molto poco “delicata”, feroce, disumana. Un boss che può vantare un “curriculum prestigioso”, avendo all’attivo circa 150 omicidi, come ha egli stesso confessato agli inquirenti con dichiarazioni agghiaccianti per la loro freddezza: “Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. Nel folto elenco delle sue vittime spiccano anche nomi eccellenti, dal momento che fu proprio Brusca il realizzatore materiale dell’attentato di Capaci. Fu lui infatti, il 23 maggio del 1992, ad azionare il radiocomando responsabile dell’esplosione che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i suoi tre agenti di scorta.

A rendere ancora più orribile la sua figura è stata la vicenda riguardante il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino Di Matteo, un ex boss che aveva deciso di collaborare con gli inquirenti, rendendo deposizioni particolarmente pregiudizievoli per Giovanni Brusca. Il boss, infatti, per vendicarsi ordinò dapprima, nel novembre 1993, il rapimento del ragazzino, ed in un secondo momento, dopo 25 mesi di prigionia, la sua uccisione. Giuseppe fu strangolato ed il suo corpo fu poi sciolto nell’acido. Ferocia, cattiveria e la totale mancanza di scrupoli sono state il tema dominante nella vita di Giovanni Brusca finché, nel 1996, non fu arrestato ad Agrigento in un villino pieno di pizzini e di annotazioni sul traffico della droga.

Nelle patrie galere il boss ha superato il proprio odio viscerale per i “pentiti” ed ha iniziato a collaborare con gli inquirenti, confessando i propri reati ed aiutando a far luce su tantissimi meccanismi interni di cosa nostra, vedendo in cambio tramutata la propria pena iniziale, l’ergastolo, in una reclusione di 26 anni. Come previsto dalla legge, il collaboratore di giustizia Brusca ha avuto diritto a tutta una serie di concessioni: non solo la diminuzione della pena ma anche dei permessi premio nell’arco degli anni. Recentemente i suoi legali hanno presentato istanza perché gli fosse concesso di scontare l’ultima parte di pena agli arresti domiciliari. La richiesta ha comprensibilmente attirato le proteste di moltissimi familiari delle vittime ed al contempo ha potuto vantare appoggi prestigiosi.

A dirsi d’accordo con l’istanza degli avvocati difensori del collaboratore di giustizia sono stati il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, e Pietro Grasso, il quale ha parlato di effettivo ravvedimento di Brusca, sottolineando come le sue dichiarazioni abbiano contribuito negli anni ad evitare ulteriori crimini. Assolutamente contrarie a questa forma di premio si sono invece dichiarate Maria Falcone, sorella del giudice, e Tina Montinaro, moglie del caposcorta del giudice, anche lui morto a Capaci. Ma anche altri come Giovanni Paparcuri, autista di Rocco Chinnici, il magistrato assassinato con una autobomba nel 1983. “Riguardo ai collaboratori – ha dichiarato un indignato Paparcuri – non ho mai creduto al loro pentimento e mai ci crederò. Per quanto mi riguarda, li farei marcire in galera per tutta la vita; al limite, i  il benefici li farei usufruire ai familiari, ma non a chi si è macchiato di reati molto gravi, come centinaia di omicidi”.

La Corte di Cassazione, con la propria sentenza dello scorso 8 ottobre, ha in un qualche modo dato ragione a questi ultimi, a coloro che hanno provato sulla propria pelle la ferocia di chi adesso è considerato una “utile risorsa”. I giudici hanno infatti sentenziato che “non è ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento” e che è dunque opportuno che Brusca termini di scontare la propria pena in cella. Una pena che, fa un po’ impressione dirlo, finirà nel 2021. Per uno strano scherzo del destino tutto questo è avvenuto proprio negli stessi giorni in cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo era chiamata ad esprimersi sulla legittimità o meno della pratica italiana dell’ergastolo ostativo, considerato contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani. E, proprio l’8 ottobre, è arrivata la decisione della Corte di Strasburgo di richiedere all’Italia di riformare la legge che lo prevede.

Secondo i giudici europei il “fine pena mai”, il concedere “premialità” solo nell’ipotesi di ravvedimento e collaborazione è disumano ed ostacola il fine rieducativo della detenzione. La decisione europea, prevedendo la concessione di premi a tutti i detenuti, promette di essere un pericolosissimo deterrente alle future collaborazioni. I premi, intesi come una forma di riconoscimento a chi si dimostra utile nel perseguire gli scopi della legge e della giustizia, sono giusti ed utilissimi ma questo non deve e non può coincidere con il perdono poiché certi crimini non possono mai essere perdonati né personalmente né socialmente. È necessario chiedersi piuttosto quale sia il confine tra “giusta ricompensa” ed incauto provvedimento.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org