La fotografia non è solo una forma d’arte. Non è solo tecnica e occhio, ma è anche un’arma. Un’arma potentissima di verità. La storia ci ha consegnato fotografi capaci, con uno scatto, di spazzare via anche l’ultimo velo di ipocrisia, mostrandoci la realtà. Cruda, violenta, atroce. Il fotografo fa il suo mestiere, compie la sua missione, come un poeta che crede nella verità. In particolare, il fotografo che si sposta laddove si compie l’orrore degli uomini ha il dovere di raccontarlo, di non nasconderlo, di svelarlo. Di rendere tangibile, visibile ciò che qualcuno immagina, sa, ma non vede. E nella società dell’immagine, a quanto pare, qualcosa accade davvero solo quando la si può vedere. Così, il dramma dei migranti, il genocidio che si compie non solo in Libia o nel Mediterraneo, ma in molte parti del mondo, assume volti, corpi, abiti, diventa quotidiano, reale, innegabile.

Avvenne anche con l’Olocausto, che il mondo non poté più nascondere alla propria coscienza quando vennero fuori i filmati e le foto di esseri umani ridotti pelle e ossa, nudi, umiliati, agonizzanti o cadaveri, ammucchiati, accatastati come oggetti qualunque. La stessa cosa è accaduta con il tema della fame nel mondo, che solo con la pubblicazione delle immagini dei bambini denutriti del Biafra diventò verità, urgenza, questione da affrontare. Oggi che la potenza dell’immagine è cresciuta ancora di più, uno scatto che offre la verità senza filtri, avvertenze, bollini a tutela delle sensibilità, potrebbe essere dirompente, far crollare le sovrastrutture costruite da un potere spietato, feroce, violento. Un potere che stupra, tortura e uccide con le parole e con i fatti, con politiche assassine, dove il consenso si costruisce sull’odio e sul disprezzo per gli ultimi. Non per una sola categoria, per una etnia, ma per tutto ciò che risponde al ritratto dell’ultimo della terra.

Un potere che, mentre aizza la guerra tra poveri, dichiara guerra agli ultimi. Lo fa con le armi, le bombe, il commercio, la sottrazione di terre e risorse, e se gli ultimi provano a scappare, a salvarsi la vita, vengono perseguitati fino a quando non sono chiamati a scegliere tra schiavitù e morte. Chi cerca la libertà trova tortura o fine, chi si salva diventa schiavo. Chi prova a fuggire si ritrova il corpo violato dagli aguzzini in Birmania come in Messico o in Libia. Oppure muore con la faccia ficcata dentro la sabbia del deserto libico o messicano o tra le onde dell’Oceano Indiano o del Mediterraneo o dell’Egeo o ancora nel fango di un fiume messicano. Storie di migranti, di etnie massacrate, di esseri umani cacciati via e perseguitati. Storie di miseria e morte, di sogni spezzati e crudeltà inenarrabili. Genocidi. Diffusi da Oriente a Occidente. Le vittime provengono sempre dal Sud del mondo, quello depauperato, predato, sventrato.

Genocidi ormai conosciuti, denunciati, raccontati. Eppure costantemente negati, non solo dal potere ma anche dalla coscienza comune. Gli oppressi subiscono e non trovano troppa solidarietà, in un drammatico rovesciamento di quel principio che nel Novecento aveva permesso al vento della libertà e della giustizia di soffiare, infilarsi tra le mura dell’orrore, abbatterle e asciugare il sangue. Oggi no. Oggi nemmeno le immagini più atroci, quelle che pugnalano lo stomaco e il cuore, riescono a produrre reazioni di giustizia. Solo emotività sterile e ipocrita che non genera la minima azione. È accaduto con Aylan, il bimbo senza vita adagiato sulla riva di una terra che significava speranza. Lacrime, indignazione e poi di nuovo silenzio. Lo stesso silenzio dentro al quale sono morti e muoiono ogni giorno tutti gli altri bambini che l’Europa respinge e che non sono finiti davanti all’obiettivo di un fotografo. È successo con le file di corpi sulla banchina del porto e nell’hangar di Lampedusa.

Lacrime, le facce contrite di un nugolo di politici che sfilavano come avvoltoi per accertarsi che quei morti fossero morti davvero e non potessero più essere un problema di accoglienza da gestire. Perché al potere i morti piacciono, da sempre. Sono facili da affrontare, basta una lacrima, una frase a effetto o un discorso d’ordinanza scritto da un collaboratore capace di un minimo di pietà. Null’altro. I vivi, quelli sono un’altra cosa. Sono un problema, sono la misura del valore di un progetto politico, sono ciò per il quale sei costretto ad avere una visione che vada oltre lo slogan violento e l’odio facile da pompare. Accadrà anche adesso, davanti ai corpi senza vita di Oscar Roberto Martinez e della figlioletta di due anni, Angie Valeria, abbracciati e con la faccia in mezzo al fango. Quella foto “sconvolge l’America”, così scrivono tutti i media.

Una foto che mostra quello che avviene da molto tempo. Un’immagine tragica che mostra gli effetti delle politiche di reminiscenza nazista del presidente Trump. Uno scatto che è solo la prova finale di una violenza che inizia alla partenza, prosegue durante il tragitto fatto di trafficanti violentissimi, stupri, abusi, e si conclude nei centri di detenzione voluti dagli americani, nei quali i bambini vengono separati dai genitori e vivono in condizioni terribili, senza alcuna cura, e muoiono. Oppure si conclude così, cercando di fuggire, di attraversare un fiume che sembra placido e che invece all’improvviso diventa trappola. Quanti piangeranno dinnanzi a questa foto? Tanti. Altri invece diranno che è un montaggio, costruiranno teorie complottiste, ci infileranno Soros e parole come “sostituzione etnica”, magari daranno la colpa a chi prova a salvare i migranti o lotta per i loro diritti. Questo ormai è il trend del mondo dei Trump, dei Bolsonaro, dei Salvini e dei loro complici e fan.

Un mondo di discorsi banali e violenti, perché la violenza è sempre banalità. E dalla parte opposta, invece, c’è un orizzonte di indignati che piange ma non sbatte i pugni, che assiste alla violenza cercando un fragile riparo nel diritto. Un diritto negato continuamente da accolite di magistrati e istituzioni perfettamente allineati a questo stato di cose. Uno stato di cose in cui gli oppressi sembrano destinati a rimanere incastrati dentro la loro condizione, perché non esistono leader o organizzazioni capaci di intestarsi una battaglia di liberazione. E perché esiste un mondo incapace di comprendere che l’emozione e la rabbia dinnanzi a una foto non servono a nulla, se il giorno dopo ci si dimentica che tutto questo accade quotidianamente e che l’orrore esiste anche quando non è impresso dentro un rullino o in una scheda di memoria. Perché alla fine, se c’è qualcosa di più osceno dell’inerzia, dell’indifferenza e della pavidità, è sicuramente l’ipocrisia.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org