Ci sono cose che vanno oltre. Oltre il lavoro, la semplice professione e le sue dinamiche quotidiane. Ci sono cose che richiamano un principio fondamentale, un’etica, non l’etica dei corsi di formazione, ma l’etica di cui parlava e scriveva Pippo Fava l’11 ottobre 1981, nel suo editoriale da direttore del Giornale del Sud. Proprio dalle sue parole, da quella luce che per me è un faro nei momenti più bui, voglio iniziare: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. […] Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! […] Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. È una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: ‘Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!’ ”.

Da queste sue parole voglio partire, per iniziare questo racconto a puntate. Che non sarà un’inchiesta giornalistica, non seguirà un canone esclusivamente giornalistico, ma sarà il racconto diretto e ampio di una vicenda nella quale si mischiano ingiustizia, vigliaccheria, inerzia, inettitudine, sfruttamento, violenza. Qualcosa che galleggia dentro questa città decaduta, dentro piccole realtà che diventano simbolo e testimonianza della miseria di una nazione che pian piano si guarda allo specchio e scopre la sua vera coscienza. Qualcosa che galleggia, tra fango e indifferenza, dentro un tempo che non cambia. Qualcosa che trattiene la verità, la tiene nascosta. Qualcosa di umanamente scabroso rispetto a cui in molti se ne stanno “intanati” nelle convenienze, nelle paure, nelle incapacità di “sentire” il dolore di chi è oppresso, di chi vive da schiavo davanti agli occhi chiusi e alle spalle voltate di una città colma di perbenisti e ignavi. Che si sommano alle stolide, volgari, violente voci di capipopolo da baracca e delle loro accolite.

Per chi non ha ancora idea di che cosa sto parlando, vi faccio solo un nome: Cassibile. Una località resa nota dalla firma dell’armistizio nel 1943. Una frazione rurale, formatasi attorno alle terre di un casato nobiliare, quello di un marchese che di fatto ha dato il via a quell’insediamento, formatosi grazie ai migranti interni, ossia i lavoratori della terra venuti da altre parti della Sicilia.

Cassibile, luogo oggi di una produzione agricola importante, che richiama ogni anno, da febbraio a giugno, con fasi e punte diverse, dai 350 ai 500 migranti totali, in grande parte regolari, che vengono per lavorare nei campi per la raccolta principalmente delle patate, ma anche di finocchi, fragole e delle altre colture del periodo. Un luogo di arrivo, dove prolifera il caporalato e dove i braccianti vengono selezionati per poi essere smistati nelle campagne, non solo di Cassibile, ma anche di altri comuni della provincia di Siracusa e perfino, in misura minima, nel catanese. Cassibile è un luogo circondato dai campi che poi si dirigono verso il mare. Un mare che però non vedi quando sei dentro il borgo: non ne senti l’aria, il respiro, il profumo. Il borgo si sviluppa su due lati longitudinali, tra le campagne e l’autostrada, attraversati da una lunga via, la via Nazionale.

Premetto una cosa: non ho nulla contro i cassibilesi, non li accomuno tutti come loro credono, semplicemente biasimo una parte di loro, per i modi e i metodi. A quelli per bene che si sentono offesi dal mio racconto, dico che, se vogliono distinguersi, forse farebbero bene a evitare di affidarsi ad alcuni capipopolo che parlano a loro nome, o magari sceglierne altri più seri, razionali, non legati a logiche politiche o di propaganda, e magari capaci di accompagnarsi con altre persone, diciamo così, più ragionevoli. Ma di questo parlerò più avanti. Ci sarà tempo e modo per spiegare meglio.

So già, perché l’ho vissuto sulla mia pelle più volte e a distanza di anni, che quello che scriverò avrà un prezzo. Perché in questa città, Siracusa, al cui ingresso trionfa un cartello che la definisce “città dei diritti umani”, se ti permetti di far notare la verità, quella che i fatti raccontano e che io metterò in fila qui, puntata dopo puntata, sei un nemico. Non solo di coloro i quali hanno interessi a mantenere un comodo status quo, non solo dei razzisti, dei delinquenti che vorrebbero spaventarti, ma anche di quelli che quella verità dovrebbero accettarla e usarla per fare qualcosa di positivo, sentirsi stimolati a farlo, e che invece preferiscono riunirsi, con i musi lunghi, in caste bianche e coese che perdono tempo a frignare e a farsi i complimenti da soli, continuando a partorire il nulla, a fare, quando va bene, il compitino e per il resto scaricare sempre su qualcun altro le responsabilità, a parlare di emergenza rispetto a qualcosa che perdura da 20 anni, sempre con le stesse dinamiche, sempre con gli stessi schieramenti e le stesse voci, sempre con le stesse soluzioni inutili.

Il prezzo da pagare significa gogne social, attacchi mediatici, avvertimenti, utilizzo strumentale di ogni mia parola, ma anche isolamento, opportunità professionali svanite, inviti cancellati, telefonate sgradevoli, valanghe di messaggi Whatsapp non proprio simpatici. Sia chiaro, non parlo di minacce (è una reazione attesa, conosciuta, che ho sempre considerato ovvia). Né parlo di mafia (per carità). Parlo del coro misero di quelli che Pippo Fava definiva scassapagghiari oppure, peggio ancora, delle silenti antipatie e delle strategiche indifferenze dei “notabili”, di coloro che ci tengono ad apparire belli, puliti e buoni. E che come persone lo sono anche, solo che questo non basta, ahinoi, a renderli capaci e coraggiosi. Oppure, alle volte, un po’ meno ipocriti.

Altra precisazione, che altrove non sarebbe necessaria, ma in questa città suscettibile lo è: nessuna delle cose che scriverò conterrà un giudizio sulle persone. Non solo verso coloro con i quali ho o avevo un buon rapporto o verso persone che ricoprono incarichi nelle istituzioni, ma anche verso i nemici, i detrattori, i capipopolo. Ciò che i fatti determinano in termini di critica e di giudizio sono riferiti solo ai comportamenti, alle capacità di gestione dei propri incarichi e alle azioni sbagliate. Perché non è mia abitudine giudicare le persone, soprattutto se non le conosco. Gli unici giudizi sulla persona saranno riservati agli sfruttatori, ai caporali e ai loro complici, ai mandanti di un sistema che ingrassa illegalmente le proprie tasche sulla pelle dei braccianti. Capisco sia difficile comprendere questa precisazione, in una città che ti sorride solo se ti allinei o se ti fai i fatti tuoi e la tua vita tranquilla, ma un tentativo è sempre corretto farlo. Poi, pazienza, se non lo si comprenderà, sarà come sempre è stato. Nulla di nuovo sotto al sole.

Fatte queste premesse, veniamo al dunque. Ho scelto di non proporre l’ennesimo servizio (sono 16 anni che me ne occupo) a un quotidiano nazionale o di accettare un incarico o una intervista per qualche tv. Non è più possibile, perché non serve e non c’è tempo. Qui c’è da ascoltare la coscienza, c’è da raccontare una storia maledettamente lunga. Una storia che non può essere narrata solo sul piano strettamente giornalistico. Ci sono troppe sfumature, ci sono stati troppi errori, troppe parole vuote, ci sono distorsioni della realtà, alibi prefabbricati, silenzi criminosi, suscettibilità nocive, inerzie che rischiano di diventare esplosive. Ho scelto allora di raccontare tutta la storia, senza filtri, aggiungendo anche i dettagli che, normalmente, dentro un articolo o un reportage, non hanno particolare importanza. Ma dentro un racconto lungo e complessivo diventano fondamentali. Perché rendono l’idea della situazione attuale. E ne definiscono i contorni, ne mostrano le complicità, consapevoli e inconsapevoli. Molti di questi dettagli, peraltro, sono il frutto anche di un’attività diversa da quella svolta come giornalista indipendente dentro le campagne, tra le baracche, il fango e le testimonianze. Un’attività di osservatore, di attivista e, in certi momenti, persino di interlocutore per una soluzione. Ma parlerò anche di questo.

Lo farò su questo blog, che ho rimesso in piedi dopo anni proprio per avere uno spazio dove poter raccontare liberamente, assumendomi i rischi come ho sempre fatto, ma almeno con la libertà di spazio e contenuti che nessun editore, soprattutto locale, potrebbe mai concedermi.
Lo faccio, sperando che in tanti, associazioni, comitati, amici, colleghi, gruppi vari, soprattutto in altre città (perché a Siracusa so già come funziona), condividano ogni puntata sui loro canali, facciano da rete e al contempo da amplificatore, per creare pressione e per far sì che in qualche modo diventiamo tutti insieme editori e giornali, raccontando collettivamente questa storia che si svolge a Siracusa ma che è purtroppo tipica di tante altre realtà italiane (sono 80 in tutto) nelle quali il caporalato è una piaga irrisolta, a causa anche dell’incapacità delle amministrazioni, della complicità delle organizzazioni padronali, della debolezza dei sindacati e della cosiddetta società civile. Vi chiedo di fidarvi, perché, come ho sempre fatto, dirò soltanto ciò che è vero.

Un racconto che faccio qui, per ricostruire tutta la storia, soprattutto quella degli ultimi tre anni. Non so se servirà a cambiare le cose, probabilmente no, ma è una cosa che devo alla mia coscienza, a quella dei pochi che lottano davvero per difendere i diritti di chi è oppresso e lo fanno perdendoci il sonno e condividendo le loro condizioni di privazione. Lo devo a chi, quasi tre mesi fa, a sorpresa mi ha chiamato, da una campagna di un’altra area di caporalato della Sicilia, per chiedermi se anche quest’anno a Cassibile si lavorerà e si vivrà in condizioni disumane. E per chiedermi, a fine telefonata, a nome di un gruppo di braccianti stranieri, di fare qualcosa per loro. Di aiutarli a rivendicare un trattamento umano.

Per tutto questo ho deciso di raccontare partendo da lontano e arrivando a oggi. Perché solo in questo modo sarà chiaro il quadro delle responsabilità diffuse e dei giochetti. Solo in questo modo, un giorno, davanti all’esplosione della tensione o a qualche episodio drammatico, nessuno potrà dire “Io non lo sapevo”.

Ci vediamo lunedì 1 febbraio alle ore 18 per la prima puntata o primo capitolo, scegliete voi. A presto.

MP