Dalla collaborazione tra la galleria “Lo Spazio Bianco” del quartiere milanese di Nolo e la newyorkese “Lattuada Gallery” è nata una affascinante mostra monografica di un’ammirevole artista contemporaneo che ha un forte legame con la città. Raymundo Sesma inizia i suoi rapporti con Milano già dalla fine degli anni ‘70. Originario del Messico, aveva già studiato tra Città del Messico e il Canada, prima di approdare in Europa, inizialmente a Londra e poi in Germania. Qua frequenta la stamperia Studio Uno e conosce i personaggi più attivi del panorama artistico di quel tempo, come Achille Bonito Oliva – con cui parteciperà a tre mostre – e Mimmo Palladino, con il quale lavorerà durante il suo secondo soggiorno milanese. Studierà scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, ma il suo amore per l’architettura – iniziato leggendo per caso un libro del padre – lo ha sempre portato ad indagare il rapporto con lo spazio.

Ed è proprio su questa indagine che si basa la mostra inaugurata il 10 maggio (durerà fino al 20 maggio) alla galleria “Lo Spazio Bianco”, i cui ambienti si prestano perfettamente al tema. Queste opere hanno la capacità di farti a pezzi l’anima e ricomporla‚ un frammento alla volta‚ ricostruendo completamente la tua visione. La potenza pittorica di Raymundo Sesma‚ la maniera di trattare il colore come elemento materico capace di astrarre tutto ciò che tocca. La materia astratta. E poi i volumi‚ appena accennati da sottili linee o leggere campiture‚ che ti riportano alla realtà figurativa man mano che l’occhio le scopre‚ in un volteggio a mezz’aria tra i due mondi. Il rapporto viscerale con società nel doppio livello singolo-multiplo‚ la ricerca di un’identità comunitaria nella dimensione urbana contemporanea che rimanga in qualche modo ancorata alla visione ancestrale di civiltà. È questa la sintesi emozionale della “pittura architettonica” di Sesma che‚ a primo impatto‚ traspira dalle tele.

La ricerca‚ l’indagine‚ rappresentata dalle silhouette antropomorfe, rimane sospesa nei volumi minimali. La monocromia delle opere ne rafforza la dimensione quasi onirica dell’atmosfera. Ad uno sguardo più approfondito‚ poi‚ si viene trascinati indietro nel tempo‚ nelle foreste del Centro America‚ dove linee e volumi trovano le proprie radici. Come in un rito sciamanico‚ attraverso le costellazioni che hanno attraversato l’umanità. E mentre l’occhio vaga dalla porosità della pittura alle rette che tagliano‚ dividono e danno forma ad uno spazio utopico‚ si viene catapultati nel qui-e-ora.

Come un tuffo nel mare profondo‚ quando vieni buttato giù dallo scoglio per scherzo e non avevi preso abbastanza aria prima di entrare in acqua. E il tuo peso all’impatto ti ha fatto scendere più a fondo di quanta riserva d’aria hai accumulato nei polmoni. E non lo ammetti‚ ma c’è quella frazione di secondo in cui pensi di non farcela mentre guardi il mondo dal basso‚ sotto uno strato d’acqua. Ma poi risali e respiri. E in quel momento più che mai la tua percezione dello spazio esterno si stravolge. Sei nel qui-e-ora. Sei vivo. E lo percepisci con ogni singola cellula del tuo corpo. La continua ricerca di un equilibrio tra il figurativo e il geometrico all’interno della composizione‚ fa si che questa alternanza di sensazioni e contrapposizioni riesca in qualche modo a creare un equilibrio dinamico.

L’opera di Raymundo Sesma è una sublime sintesi di visioni‚ prospettive‚ epoche‚ culture e tradizioni che si incontrano‚ si mescolano‚ alla ricerca di un fine etico e democratico che funga da punto di massimo bilanciamento tra le parti. Le ambientazioni‚ cupe e nebbiose‚ hanno la magistrale capacità di adattamento a qualsiasi bagaglio immaginifico‚ dunque è possibile tradurle e farle proprie a prescindere dalla propria provenienza. Una condizione apolide che nella non appartenenza trova dimora in ogni luogo. In un meraviglioso paradosso identitario. Ed è appunto nella ricerca del luogo come identità che le figure trovano ragione di esistere‚ come se fossero estensione e rappresentazione di quella parte di Semsa che realizza interventi urbani con le comunità per la riappropriazione dei non-luoghi. Quella parte di sé che sente l’urgente bisogno di modellare e definire degli spazi a cui le persone sentano di poter appartenere.

L’impronta socio-antropologica si riscontra anche nella necessità di adottare una pluralità di linguaggi nel corso della sua carriera. La sperimentazione di molteplici tecniche e materiali‚ il confronto con una moltitudine di superfici e spazi differenti‚ dalla tela all’ambiente urbano‚ porta l’io-artista, il cui pensiero individuale si traduce in una superficie‚ all’io-essere-della-società che ricerca il confronto di questo suo pensiero nel contesto che lo circonda, e tradurlo così‚ in un linguaggio paesaggistico democratico in cui ci si possa riconoscere. È o non è‚ questo‚ il massimo valore a cui l’arte possa ambire? Quel valore puro e incalcolabile che va al di fuori delle aste‚ delle mode e dell’andamento del mercato. Quel valore fatto di frammenti di storie‚ di pensieri e ideali‚ di testimonianze e memorie‚ di scambio e di confronto‚ di apertura al nuovo e ricerca di un punto d’incontro di cui l’utopica società ideale dovrebbe essere fatta. E mai basteranno parole per descriverlo.

Sarah Campisi -ilmegafono.org