L’albero del banano, originario del Sudest asiatico tropicale, è stato una delle piante che più hanno viaggiato a bordo delle navi delle potenze coloniali e dei trafficanti di schiavi, conquistando un ruolo importante in Africa e, soprattutto, in America Centrale e nelle regioni settentrionali del Sudamerica. La banana era preziosa perché considerata un ottimo alimento per gli schiavi, anche nella sua versione “da cottura”, il platano. Ma la vera fortuna di questo frutto iniziò nei primi anni del ‘900, quando i medici statunitensi cominciarono a consigliare alle mamme di far mangiare banane ai figli, in virtù dell’abbondanza di potassio e di altri nutrienti di qualità. La crescita della domanda internazionale trasformò il banano in un albero da piantagione, a discapito di vaste porzioni di foreste tropicali abbattute per coltivare il frutto dorato. Questa espansione, che in breve avrebbe fatto diventare la banana il frutto più diffuso al mondo, fu gestita per decenni in regime di quasi monopolio dalla statunitense United Fruit Company, oggi nota come Chiquita.

L’azienda divenne una forza economica, politica e perfino militare in Paesi come Guatemala, Costa Rica, Honduras, Panama. Dettava legge, otteneva privilegi, nominava i governanti e, quando alle elezioni vinceva qualcuno che potesse intaccare i suoi interessi, lo rovesciava: ad esempio, accadde in Guatemala con il socialista Jacobo Árbenz Guzmán, spodestato nel 1954 da un colpo di Stato e sostituito da una dittatura. I Paesi vittime della “piovra verde”, come era conosciuta la United Fruit, divennero così i “Paesi delle banane”. L’odierno business globale delle banane è miliardario: si contano circa 20 milioni di tonnellate all’anno di prodotto destinato all’export da diverse imprese, oltre a 90 milioni di tonnellate consumate nei mercati interni dei Paesi tropicali e subtropicali. Ma c’è un punto molto debole, ed è la stessa genetica delle piante, che non hanno semi e si riproducono in modo asessuato. E cioè grazie alla mano dell’uomo, che taglia un pezzo di radice e lo pianta.

Perciò tutte le piante di banane sono geneticamente uguali ed esposte al rischio di essere colpite in massa da patogeni come il fungo Fusarium oxysporum, che fece sparire la varietà Gros Michel da tutto il mondo attorno a metà degli anni ‘60. Era la cosiddetta “malattia di Panama”. Da allora il mercato mondiale è stato dominato dalla specie Cavendish, resistente a quel fungo. Ma la specie Cavendish oggi si rivela altrettanto debole di fronte a un’altra varietà del Fusarium oxysporum, individuata in Australia a fine anni ‘90: dal 2010 il “nuovo” fungo si è diffuso in Vietnam, Taiwan e Mozambico causando un’epidemia nota come “Tropical Race4”. Attualmente in Mozambico, uno dei grandi produttori africani di banane (circa 800mila tonnellate all’anno), risulta presente ovunque. Si preannuncia dunque una nuova crisi per il settore.

Questa seconda grande crisi destinata a colpire il frutto più venduto nel mondo racconta diverse cose sulla globalizzazione, di ieri e di oggi. La coltivazione a dismisura, a discapito delle foreste, di una pianta fragile, modificata e ibridata nel tempo dall’uomo; una pianta divenuta fondamentale per le esportazioni di interi Paesi e fonte di lavoro per milioni di persone, ma di vero guadagno solo per poche imprese multinazionali.

È il paradosso del primo vero frutto globale, insieme all’ananas, tra l’altro commercializzato dalle stesse compagnie. Perché la globalizzazione omologa il gusto e i consumi: e quando ciò avviene con successo, come con le banane, allora non importa quale prezzo si debba pagare per offrirle sul mercato. Ma poi c’è da fare i conti con la natura, e con i funghi: a meno che non si finisca, come già si sta ipotizzando, a produrre solo banane OGM. Mettendo la scienza al servizio non dell’alimentazione umana, ma di un modello produttivo che nuoce all’equilibrio ambientale e, alla fine, anche alla sicurezza alimentare del genere umano.

Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org