Il 2022 si è presentato come un altro anno complicato con un vago sentore di catastrofe ad ingrigire un po’ l’umore sociale. Ma non è solo il Covid-19 a impensierire gli italiani: un considerevole numero di cittadini è letteralmente pietrificato dalle indiscrezioni che vorrebbero Silvio Berlusconi in corsa per il Quirinale. Il cavaliere è stato senza dubbio un uomo d’affari capace, con manovre economiche ed imprenditoriali astute ma anche parecchio ambigue, di costruire un vero e proprio impero finanziario per sé e la sua progenie. Ma, aldilà di queste considerevoli doti capitalistiche, c’è una figura non proprio limpida, probabilmente la meno idonea a ricoprire un ruolo delicato come quello di garante della Costituzione (ne parliamo nell’articolo di apertura di oggi). La sua figura  è accostata a controversi episodi più o meno gravi, alcuni di mera matrice economica (come per esempio il modo poco limpido in cui lui e Previti sarebbero riusciti a portare via la villa di Arcore ad una ragazzina appena restata orfana), altri che lo vorrebbero addirittura vicino ad ambienti mafiosi.

È noto a tutti, per esempio, che nella villa di Arcore trovava lavoro, con la qualifica di fattore (anche se spesso è stato definito lo stalliere), Vittorio Mangano, importante esponente di cosa nostra. “Era una persona che con noi si è comportata benissimo – ha detto di lui Berlusconi – poi ha avuto delle disavventure nella vita che lo hanno messo un po’ in mano ad un’organizzazione criminale”. Come se non fosse già abbastanza fantasioso ed ossequioso definire “brava persona” un pericoloso boss, le dichiarazioni del proprietario di villa San Martino ad Arcore si sono spinte sino a definirlo un “eroe”, perché “non ha mai ceduto al ricatto dei giudici che lo avrebbero scarcerato in cambio di accuse nei miei confronti e di Marcello Dell’Utri”.

Aldilà di queste argomentazioni, senza dubbio importanti ma un po’ stagionate, una riflessione più approfondita sull’effettiva opportunità di questa candidatura dovrebbe arrivare dalla testimonianza che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha reso ai giudici, pochi mesi fa, precisamente nel giugno 2021, ma il cui verbale è stato depositato solo lo scorso 14 dicembre. Durante la sua deposizione Brusca, che, val la pena di ricordarlo, con le sue dichiarazioni ha spesso aiutato i magistrati a fare luce su molti crimini mafiosi, ha confermato la veridicità di fatti riferiti molti anni prima da un altro collaboratore di giustizia: Salvatore Cancemi. Nel corso del processo Borsellino ter, a Caltanissetta, Cancemi riferì infatti ai magistrati che Totò Riina intratteneva rapporti con Berlusconi e Dell’Utri e che le stragi degli anni ‘90 avrebbero avuto la finalità di “far cadere i politici che in quel periodo erano in sella e favorire Berlusconi e Dell’Utri”.

“Berlusconi – dichiarò inoltre in aula il pentito – era nelle mani di Totò Riina e posso dire con assoluta certezza che lui li nominava sempre, diceva che dovevamo garantirli e stargli vicino ora e nel futuro perché avrebbero aiutato cosa nostra”. Affermazioni piuttosto gravi e inquietanti che hanno trovato un’esplicita conferma nelle parole di Brusca. “Quello che ha dichiarato Salvatore Cancemi – ha detto il collaboratore di giustizia – in ordine alla finalità delle stragi di portare in ‘sella’ Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri è la verità”. Parole non dimostrabili forse, ma certamente sufficienti a sollevare moltissime perplessità poiché, laddove fossero veritiere, il rischio che oggi concretamente corre il nostro Paese è altissimo, poiché per vigilare sulla Repubblica ci si affiderebbe a qualcuno che è sospettato di aver avuto un rapporto diretto e interessi convergenti con la criminalità organizzata, ossia con i nemici della Repubblica.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org