Un’estate a Genova, ventuno anni fa, troppo brutta e troppo calda per sembrare vera. Quell’estate ha lasciato un ragazzo sull’asfalto e troppe ferite che, con il tempo, sono diventate cicatrici profonde. Per questo non potrà mai essere dimenticata. Sono passati ventuno anni da quei giorni di luglio a Genova e, di quella corrida, tutti conoscono tutto: la festa e la passione pulita di chi credeva che un mondo diverso fosse ancora possibile, insieme alla consapevolezza che la strada scelta dai padroni del mondo fosse una strada sbagliata, perché in fondo a quella strada gli ultimi potevano essere solo e ancora più ultimi di sempre. Per questo bisognava reprimere quella festa e soffocare quella consapevolezza e, per farlo, lo Stato ha usato tutto il peggio che poteva usare. Le strade e le piazze della città di Genova trasformate in una mattanza restano una macchia incancellabile dello Stato italiano e degli uomini che lo rappresentavano.

Tutti, nessuno escluso: dalle forze dell’ordine che hanno eseguito la brutale repressione agli uomini di governo che hanno guidato e coperto tutto quello che potevano guidare e coprire, fino ad una parte enorme dell’informazione che conta, la quale, per intere settimane, ha alimentato il clima di terrore e di scontro alla vigilia del G8, dando il massimo della visibilità a tutto ciò che serviva a creare quel clima di allarme e paura. La notte di Genova, la notte nella scuola “Diaz” e nella caserma di Bolzaneto: accadde quello che Amnesty International arrivò a definire come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. In quei giorni di luglio si decise la fine di una generazione e di un movimento che crescevano nel Paese, che acquistavano fiducia e credibilità e che per questo dovevano essere colpiti ed estirpati. Per farlo, si scelse la repressione violenta. Per troppo tempo le cose non sono state chiamate con il loro vero nome: tortura.

Lo Stato ha sempre difeso e protetto gli autori di quella “macelleria messicana”, molti degli “attori protagonisti” di quel film dell’orrore sono stati promossi e aiutati nella loro carriera: da Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del Reparto mobile di Roma e poi promosso questore, a Gilberto Caldarozzi, nominato vicedirettore della Direzione investigativa antimafia. All’epoca del G8, Caldarozzi era il vice di Francesco Gratteri, anche lui condannato ma promosso prefetto e poi andato in pensione (leggi qui). Sono solo alcuni esempi, che seguono una logica precisa, considerando che Gianni De Gennaro, capo della polizia durante il G8 di Genova, è diventato in seguito sottosegretario di Stato del governo Monti e, dal 2013 al 2020, presidente di Finmeccanica – ora Leonardo – l’azienda considerata il gioiello di famiglia dello Stato, leader nei settori difesa, aerospazio e sicurezza, e di cui il ministero dell’economia era e rimane l’azionista di maggioranza.

Tutti assolti In primo grado, nel 2008. Solo due anni dopo, nel 2010, la condanna fino a quattro anni di carcere da parte della Corte d’Appello di Genova, che cancella quel verdetto di primo grado. Tante le accuse, pesanti: dalla violenza del loro agire fino alla produzione di prove false che lo giustificassero. È contro questa sentenza, confermata anche dalla Corte di Cassazione, che gli imputati condannati hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, chiedendo la revisione del processo. Quella stessa Corte ha dichiarato “irricevibile” quel ricorso, perché “manifestamente infondato”. L’ha dichiarato con una sentenza datata 13 gennaio 2022, ma resa pubblica solamente nei giorni scorsi. Dal punto di vista strettamente giuridico questa sentenza scrive, per molti osservatori, la parola fine sul G8 di Genova.

Difficile, però, condividere e accettare questa parola: impossibile separare l’operato delle forze dell’ordine dalla volontà politica di chi era al governo del Paese in quell’estate maledetta, impossibile accettare che chi era al comando di quelle stesse forze dell’ordine abbia poi potuto continuare ad avere un ruolo di grande rilevanza politica e sociale ai vertici del Paese: servizi segreti, prefetture e questure, antimafia, aziende di Stato. Questo Paese non riesce mai a fare i conti con il proprio passato, è stato così nell’immediato dopoguerra con molti uomini del regime fascista e così è ancora oggi. C’è un’intera classe politica che non ha mai risposto al Paese sulle proprie responsabilità nei giorni di Genova. Alcuni nomi su tutti: dall’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, al ministro degli Interni, Claudio Scajola, che non hanno mai sentito il dovere di spiegare al Parlamento e al Paese la repressione feroce delle forze dell’ordine riservata solo ai movimenti pacifici e non violenti, mentre le tute nere dei “Black Bloc” potevano agire indisturbati.

Nessuno si è mai assunto la responsabilità su chi comandava la Celere alla Diaz e a Bolzaneto, nessuno ha mai spiegato quello che molte fotografie hanno mostrato: black bloc a colloquio amichevole con poliziotti e carabinieri. C’era un vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, che non ha mai chiarito il suo ruolo e la sua presenza a Genova mentre il suo collega di partito Filippo Ascierto, ex maresciallo dei Carabinieri, era presente nelle centrali operative. C’era un ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che ha sempre difeso l’operato della polizia e ha sempre negato ogni violenza. La parola fine sulla “macelleria messicana” di Genova non è ancora stata scritta per il semplice motivo che questo Paese non vuole scriverla. Sono stati individuati gli attori protagonisti, o forse le comparse, ma la regia non viene toccata. E a non volerlo e a non permetterlo è la stessa classe politica. 

Nell’agosto del 2001 si istituiva il “Comitato d’indagine parlamentare” sui fatti di Genova, con 18 deputati e 18 senatori delle commissioni Affari costituzionali. L’incarico di presiedere il comitato venne affidato a Donato Bruno, parlamentare di Forza Italia. Nessuna volontà di ricostruire le responsabilità politiche e la catena di comando. I lavori si conclusero dopo meno di due mesi, il 20 settembre 2001, e l’attenzione era tutta spostata su altre questioni: era appena arrivato l’11 settembre. Nel documento conclusivo, votato a maggioranza, si affermava testualmente che “relativamente all’episodio della scuola Diaz, il Comitato rileva la legittimità del comportamento tenuto dalle forze dell’ordine”. La Corte di Strasburgo ha scritto certamente una pagina di verità storica ma quella pagina, per quanto importate, solo in minima parte rende giustizia a chi ha subito la violenza di quei giorni. Ora spetterebbe allo Stato italiano scrivere il resto della storia e assumersene finalmente la piena responsabilità. 

Haidi Giuliani (foto di Maurizio Anelli)

“A diciotto anni si diventa grandi … e Carlo è rimasto in questa piazza”. Con queste parole, nel luglio del 2019, dal palco di piazza Alimonda, Haidi Giuliani si rivolgeva a noi che eravamo in quella piazza. Non è mai facile raccontare un brivido quando arriva veloce come un lampo e attraversa la schiena fino a fermarsi in un angolo del cuore, al riparo da tutto e da tutti. Ti racconti che eri preparato, che Haidi Giuliani l’hai già incontrata altre volte nelle strade di Genova e di Milano. Conosci quel volto e quella voce, sempre più debole ma al tempo stesso decisa, con il suo carico di dignità e di dolcezza. Allora abbassi lo sguardo e cerchi di non incrociare altri sguardi, altri occhi che luccicano. Fa caldo in piazza, il sole picchia e, sì, forse è per questo che gli occhi sono lucidi. Intanto ascolti le parole di Haidi Giuliani, riavvolgi la pellicola di quel brutto film girato a Genova nell’estate del 2001 con una trama scritta da tempo, preparata e calcolata con fredda lucidità: si doveva arrivare allo scontro finale, alla resa dei conti. Si trattava solo di aspettare il momento giusto, lo scenario che giustificasse lo scempio. Così è andata in quell’estate del 2001 e lo sanno tutti, anche chi si nasconde dietro i banchi dello Stato.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org