Articolo 1- “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Ma l’Italia è anche quella Repubblica dove di lavoro si muore e dove il lavoro si prende la vita dei lavoratori e delle città. Lo sanno benissimo a Taranto, dove lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa ha prodotto acciaio e veleni senza limiti, al punto da contaminare un’intera città. Nel 2018, l’Osservatorio nazionale amianto (ONA) pubblica uno studio dove i numeri e le stime dimostrano che, tra i lavoratori impiegati all’interno dello stabilimento ex-ILVA, i casi di cancro sono il 500% superiori rispetto alla popolazione della città non occupata nella fabbrica. La città di Taranto è divisa in zone, in base al rischio di contaminazione, e chi vive nei siti più contaminati sviluppa un rischio di morte per cancro molto più alto rispetto alla popolazione generale (leggi qui). Taranto non è la prima città dove si muore di veleni in cambio del lavoro. Lo stesso prezzo lo hanno già pagato Marghera con il Petrolchimico, Casale Monferrato con l’amianto, e poi Monfalcone, Genova e altre ancora. Amianto e veleni.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Lo sapevano anche gli operai della Thyssenkrupp in quella notte maledetta del dicembre del 2007, quando il fuoco se li portava via in quello che restava di una fabbrica destinata a morire, ma dopo di loro. Che cosa resta di quella notte di dicembre del 2007? “Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre … Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili“ (leggi qui).

Anche a Soumaila Sacko avevano raccontato di quella “Repubblica democratica, fondata sul lavoro” e lui ci aveva creduto così tanto che aveva lasciato il suo Paese, il Mali, per venire fin qui per morire di lavoro. Aveva solo ventinove anni e l’inganno lo aveva capito in fretta, al punto di diventare un attivista sindacale in quella tendopoli degli ultimi a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. Non era un lavoro il suo e quello di tanti suoi compagni, era schiavitù. E gli schiavisti avevano la faccia dura dei caporali delle mafie di sempre e lo hanno ucciso a fucilate, perché un migrante che si ribella alla condizione di schiavo e si batte per i diritti suoi e dei suoi compagni fa sempre paura.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Ma dov’è e cos’è oggi il lavoro, cosa rimane dei diritti che i lavoratori pensavano di aver conquistato dopo anni di lotte, umiliazioni e sconfitte? Che cosa resta di tutto questo in un Paese che ha dimenticato il valore e il significato di questa parola? Che cosa è cambiato e cosa è rimasto da quel Primo Maggio 1947, quando a Portella della Ginestra si compiva la prima strage dell’Italia appena uscita dalla guerra voluta dal regime fascista ? La storia racconta sempre qualcosa a chi la vuole ascoltare, scrive pagine che vanno lette, capite e non vanno dimenticate: in Italia la giornata del Primo Maggio venne celebrata per la prima volta nel 1891. Durante il ventennio fascista, quella data fu cancellata e sostituita con il Natale di Roma, il 21 aprile, per festeggiare “il lavoro italiano”.

Oggi, anno di grazia 2019, il sistema capitalistico mostra tutti i suoi limiti di sviluppo sociale e di democrazia e a pagare il prezzo più alto sono i lavoratori, tutti. Perché chiunque creda nel lavoro come strumento necessario alla crescita e allo sviluppo del “bene comune”, vede sgretolare ogni certezza. Questo vale per tutto il mondo del lavoro. Siamo dentro un modello di vita sbagliato che distrugge tutto: ambiente, natura e vite umane. È il ricatto del vecchio sistema capitalista cui si aggiunge la variante di quel neoliberismo sfrenato e autoritario figlio della scuola dei “Chicago boys” di Milton Friedman: privatizzazioni drastiche di aziende e beni dello Stato, riforme reazionarie del mercato del lavoro per arrivare a quella flessibilità della forza-lavoro, che era così cara a Marchionne, per arrivare a una libera e mai controllata circolazione dei capitali. Per realizzare tutto questo servivano, e servono, l’affermazione di governi reazionari in grado di creare con il tempo le condizioni sociali e culturali necessarie e un sindacato sempre più marginalizzato e/o aziendalista.

Oggi il risultato sembra raggiunto. Il mondo del lavoro è nelle mani delle multinazionali, delle mafie locali e di cooperative che non hanno nulla del DNA dell’antico spirito cooperativo e di mutuo soccorso. Nell’Italia di oggi, ma non solo, sono troppi i pezzi di un puzzle che non può andare avanti a lungo: per esempio il vorticoso giro di appalti e subappalti, cooperative che gestiscono lavoratori con la logica del caporalato e con nuove forme di sfruttamento del lavoro, più moderne e più raffinate perché garantite da leggi dello Stato come le mille forme di contratto, le esternalizzazioni, gli stage e tutto ciò che trasforma un lavoratore in un eterno precario. Infine, ma non ultimo, la morte sociale di tanti angoli delle città, dove ogni giorno un negozio chiude per sempre perché questa è l’epoca dei centri commerciali aperti h24, di Amazon e dell’acquisto online. In quali condizioni si trovano a lavorare i dipendenti di Amazon interessa a pochi, perché quei lavoratori sono come invisibili.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Ecco allora che la festa del 1° Maggio, oggi più che mai, rimane qualcosa che deve essere vissuta con determinazione e con il cuore. È nostra quella festa, ma non può essere solo un giorno di festa: deve essere un giorno di lotta. Perché quello che volevano i “Chicago boys” di allora e di oggi è spegnere la lotta comune dei lavoratori. Non vogliono solo la rassegnazione, ma vogliono di più: vogliono l’assuefazione. Vogliono donne e uomini che non credano più nella coscienza di classe e nella forza della lotta e dell’autodeterminazione, vogliono scolari in fila per tre che si accontentano di un ruolo ai margini della società. Vogliono operai che accettano di morire in una fabbrica di veleni in cambio dello stipendio, vogliono edili che accettino di salire su impalcature pericolanti, vogliono commesse che lavorano sette giorni su sette.

Vogliono migranti che arrivano dall’Africa o da ogni parte del mondo disposti a dormire in baracche fatiscenti e che accettano la chiamata del caporale del momento, per andare a morire di fatica nei campi dopo aver raccolto pomodori per un’intera giornata. Vogliono schiavi, che non abbiano il coraggio e la dignità di ribellarsi. Vogliono che nessuno creda più a un’idea di sindacato, perché vogliono i loro sindacati mansueti e allineati.

La strage di Portella della Ginestra, mafiosa e fascista, è stata il primo avviso che i lavoratori dell’Italia Repubblicana hanno ricevuto: non alzate la testa, state al vostro posto. Perché mai dovremmo fargli questo favore? Teniamola alta la nostra testa. Perché l‘Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e perché il Primo Maggio è nostro. Prendiamocelo e difendiamolo, per quell’idea di vita e dignità che nessun “Chicago boys” può permettersi di portarci via.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org