21 novembre 2022. Al “Khalifa International Stadium” di Doha si gioca la partita fra Iran e Inghilterra. È l’unico stadio che non è stato costruito per questa oscena vetrina mondiale voluta dalla Fifa, e dai padroni della politica, per omaggiare gli emiri: esiste dal 1976. Due archi immensi ricoprono il prato e, anche per questo, è considerato il monumento sportivo del Qatar. Le statistiche della Fifa ricorderanno il risultato finale: 6 a 2 per l’Inghilterra. Ma la partita, quella vera, l’hanno vinta undici uomini in maglia rossa, in silenzio. Giocatori di un altro tempo e di un’altra partita, giocata contro avversari più grandi ma piccoli dentro: la Fifa e le Federazioni delle squadre che hanno tremato davanti al ricatto del “boss”, e i capitani delle squadre, incapaci di disobbedire, schiacciati dalla paura di un cartellino giallo che poteva pregiudicare la loro vetrina mondiale. Loro, i giocatori dell’Iran, adesso rischiano qualcosa di molto più grande e più grave di un “cartellino giallo”.

Guardiamola questa storia, mettiamo in fila ogni tessera di un mosaico squallido e ipocrita. Il giorno prima di questa partita la Fifa decide di vietare ai capitani delle squadre di indossare la fascia con la scritta “One Love”. Erano otto le squadre europee che avevano deciso che i loro capitani potessero mettere quella fascia al braccio: un cuore e i colori dell’arcobaleno. Un gesto simbolico, un segno di protesta contro la violazione dei diritti umani, delle donne e della comunità Lgtbqi+, in Qatar. La Fifa allora decide di compiere l’ennesimo passo politico, volgare e pericoloso: proibire questo gesto simbolico, minacciando sanzioni sportive a carico dei capitani che avessero osato indossare quella fascia.

Sono le stesse otto nazionali che avevano annunciato l’iniziativa (Olanda, Belgio, Danimarca, Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera e Galles) a spiegare con un comunicato ufficiale le direttive del massimo organismo del calcio: “La Fifa è stata molto chiara sul fatto che imporrà sanzioni sportive se i nostri capitani indosseranno la fascia sul campo di gioco. Come federazioni nazionali, non possiamo mettere i nostri giocatori in una posizione in cui potrebbero incorrere in sanzioni sportive, comprese le ammonizioni. Quindi, abbiamo chiesto ai capitani di non indossare la fascia durante le partite della Coppa del mondo Fifa”. In altre parole, le otto nazionali rinunciano alla dignità e al coraggio di una scelta, chinano la testa e obbediscono all’ordine. La Fifa non si accontenta e rilancia, fornendo ai capitani la fascia ufficiale con la scritta “No discrimination”, generica e anonima nella sua assoluta e scontata banalità.

È così che si arriva al “Khalifa International Stadium” di Doha. Tutto è pronto, ma prima della partita c’è il rito degli inni nazionali a cui non ci si può sottrarre. Prima tocca all’Inghilterra e il protocollo è salvo: i giocatori e i tifosi inglesi presenti allo stadio cantano “God Save the King”. Poi comincia un’altra partita, quella di undici uomini in maglia rossa: in piedi, impassibili e abbracciati, muti, lanciano il guanto di sfida al loro Paese: l’Iran. Poi, quando le note finiscono, si stringono in cerchio. C’è tensione in quegli sguardi, e se paura esiste è nascosta con fierezza dentro quel guanto di sfida lanciato al regime iraniano con quel grido assordante di silenzio. Quanto coraggio serve per non cantare l’inno nazionale di un Paese dove l’autorità politica e religiosa degli Ayatollah aspetta che tu canti a voce alta sulle note che inneggiano alla “continua ed eterna Repubblica Islamica dell’Iran”? Quanto coraggio serve per sfidare in mondovisione la “Polizia Morale” iraniana, la famigerata Gasht-e Ershad, chiamata anche “pattuglia della morte”?

Ne serve molto di coraggio e molto è ancora poco. Quel coraggio chiede la forza della dignità e dell’amore per la tua gente, ascolta la rabbia accumulata da mesi di violenza e di morti nelle strade e nelle piazze di Teheran, di Isfahan e di ogni città dell’Iran, serve il ricordo per una ragazza curdo-iraniana che si chiamava Mahsa Amini, arrestata e uccisa a 22 anni per non aver nascosto una ciocca di capelli. Infine, serve la consapevolezza che, per quella squadra che oggi affrontava i leoni inglesi, ci sarà un ritorno in Iran e quel ritorno sarà tremendo perché ad aspettarla ci sarà molto probabilmente il “Consiglio dei Guardiani della Costituzione”. Sulle tribune dello stadio coperto dagli archi sono in molti a fischiare e ad insultare i giocatori, a non capire che quegli undici uomini in maglietta rossa stanno vincendo la loro partita e, forse, stanno firmando la propria condanna.

Qualcuno, invece, comprende tutto quello che sta succedendo e che ancora succederà: uomini e donne che alzano cartelli con i colori dell’Iran e le scritte “Freedom for Iran” e “Woman Life Freedom”, una donna inquadrata da tutte le telecamere piange, una donna che in uno stadio in Iran non sarebbe mai potuta entrare. Il mondiale della vergogna, della Fifa e degli Emiri è appena cominciato, ma dentro quello stadio coperto dagli archi si è giocata una partita che resterà nella memoria, non per come è finita ma per come è cominciata. Per qualcuno è stata una sorpresa, ma così non è. Da tempo i giocatori avevano preannunciato che qualcosa sarebbe successo: era già accaduto a settembre, prima della partita contro il Senegal, quando durante l’inno i giocatori avevano indossato un giubbotto nero a coprire le insegne dell’Iran sulle maglie (leggi qui).

Alcuni di loro avevano apertamente dichiarato la loro solidarietà alle donne iraniane, prendendo posizioni sui loro profili social e nelle interviste concesse alla stampa estera. Lo aveva fatto Mohammad Ali Karimi Pashaki, ex calciatore iraniano, considerato il miglior calciatore asiatico di sempre. Per il suo attacco al regime ha ricevuto un mandato di cattura internazionale. Lo aveva fatto anche Ali Daei, anche lui ex-calciatore, arrestato nell’ottobre scorso per essersi schierato accanto a chi protestava nelle strade. Le loro erano state le prime voci ad alzarsi, qualcuno parlava di uno spogliatoio e di un gruppo in difficoltà, diviso sulle scelte: mentre alcuni calciatori esprimevano, apertamente e pubblicamente, il loro dissenso, altri hanno scelto di non farlo. A fine settembre è la volta di Sardar Azmoun, e le sue parole sono una rasoiata: “Personalmente non sono più in grado di tollerare il silenzio. Possono anche escludermi dalla squadra: è un sacrificio che farei anche per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane”.

Così, un giorno alla volta, quelle divisioni diventano un sentire comune, capace di costruire quel muro di silenzio assordante, ascoltato e visto da tutto il mondo. Come spesso succede, in un momento storico che richiede gesti forti, sono i più vulnerabili e i più esposti a trovare il coraggio per fare quel gesto, e questa è la distanza con il mondo dorato del calcio e più in generale con tutto il mondo che si autocelebra nelle sue stesse vetrine. Quel gesto racconta di chi si ferma davanti alla minaccia di una sanzione sportiva, di un cartellino giallo, e di chi invece non si ferma davanti ad un regime capace di uccidere per una ciocca di capelli. E ora? Cosa succede ora e cosa succederà domani? Lo sapremo presto, perché qualcosa accadrà quando questi uomini in maglia rossa torneranno in Iran. O forse non lo sapremo mai, perché i regimi sanno aspettare il momento per presentare il conto a chi ha il coraggio di pensare e di opporsi.

Alda Merini scriveva che “se cerchi un tesoro… cercalo in fondo all’anima di chi sa parlare con i silenzi”. Dopodomani le statistiche e la Fifa ricorderanno la vittoria dell’Inghilterra: l’Iran ha perso 6 a 2, ma quegli uomini in maglietta rossa il loro mondiale lo hanno già vinto, in silenzio.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org