“Il problema è che la gente ha ridotto notevolmente il vocabolario”. È questa la risposta che ha dato Marco Guadagno, direttore del doppiaggio e dialoghista di tutti i film dei Marvel Studios, interpellato da “Fumettologica” dopo che la curva del grafico di Google Trends è schizzata in alto sotto la parola “ineluttabile”. Come riportato ampiamente sui giornali, sui social media, in tv (bello l’intervento di Alessandro Cattelan) e pure da una mia amica telefonicamente, è successo che dopo la visione del colossal “Avengers: Endgame”, ultimo capitolo della ventennale saga sui supereroi della Marvel, un numero spropositato di internauti ha cercato online il significato del termine “ineluttabile”, pronunciato in un climax cinematografico ad hoc dall’antagonista del film. Il termine originale era “inevitable”, ma a Guadagno era sembrato logico dare al cattivissimo un’aria epica nel farlo parlare in italiano (“inevitabile” sarebbe stata roba da b-movie).

S’è parlato tanto, quindi, di questa ricerca del significato, dell’assenza nel vocabolario di tantissimi italiani (verosimilmente appartenenti alla fascia d’età 15-40) di un termine che è abbastanza probabile che ti sia passato sotto gli occhi o fra le orecchie a scuola. Viene da chiedersi, quindi, se il problema sia la scuola. Sì, credo che potremmo affermare che il problema è (anche, forse soprattutto) la scuola. L’istruzione, in generale. Dovremmo considerare abbastanza preoccupante il fatto che (dato ISTAT) siamo penultimi in Europa per numero di laureati: sotto di noi solo la Romania, e il nostro 27,8% di 30-34enni col titolo in mano impallidisce di fronte al 57,6% della Lituania. La Romania, però, guarda tu, ci supera per numero generale di studenti che hanno una comprensione adeguata di come lavorano le istituzioni Ue. Nell’indagine del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) su Italia, Francia, Germania, Svezia e Romania gli italiani sono infatti ultimi, i rumeni secondi.

Dovremmo chiederci se il problema siano le Università, quindi, perché stando alle ricerche di “Sodexo” il 46% degli studenti italiani boccia il proprio percorso accademico, e il 36% ha pensato addirittura di abbandonare (mentre in Cina, ad esempio, solo al 5% passa per la testa una cosa del genere). Quasi la metà dei laureati, poi, non crede di riuscire a trovare lavoro. Ci sono indizi, però, che ci dicono di cercare più a fondo: i dati di “AlmaDiploma” parlano di un 33% di studenti italiani che, superata la maturità, confessa di aver sbagliato indirizzo di studi. Il 70% in Spagna si dice appagato, così come l’82% in India, per dire. Scendendo ancora, però, scopriamo che un recente studio evidenzia come per dispersione scolastica siamo fra i primi al mondo: sono stati persi oltre tre milioni di studenti in 20 anni. Tre milioni. La Norvegia ha un tasso pari a zero, in quanto a perdite. Secondo “Tuttoscuola”, circa un quarto degli studenti che iniziano il percorso delle superiori non arriva al diploma.

Sì, il problema è decisamente la scuola. Non è che il vocabolario si riduce: il vocabolario non c’è proprio. L’idea delle scorciatoie per l’apprendimento rappresentata dal web è terribile. Lo dimostrano gran parte dei no vax, che credono di avere a portata di mano le risposte, o i mostruosi terrapiattisti, ai quali abbiamo colpevolmente dato la voce, oppure tutti quelli che cercano di giustificare il proprio odio per l’altro nutrendosi di numeri senza senso e senza fondamento sull’immigrazione, e alimentando poi il fuoco con altri numeri, in un moltiplicarsi di fake-news che ci sfugge di mano.

Il 2 giugno ad Acireale, dopo aver festeggiato la Repubblica, ha avuto luogo la cena etnica d’integrazione “Iftar – Rottura del Digiuno”, per celebrare la fine del Ramadan, in presenza del Vescovo, del Sindaco e di un gran numero di persone: chiaramente non sono mancate le critiche. Partendo dall’assioma che i musulmani dalle loro parti non festeggerebbero mai con chi appartiene ad un’altra religione, gli attacchi si sono moltiplicati, al grido di “prima le feste degli italiani”. Non molti, certo, ma significativi. Una sorta di intolleranza con l’intolleranza perché gli intolleranti sono gli altri, per dirla complicata. Eppure sarebbe un po’ come dire che se sei siciliano non puoi ricoprire incarichi pubblici perché vale l’assioma che i siciliani sono mafiosi. Insomma: giustificare l’odio partendo da convinzioni sbagliate, sbagliate perché nate in mancanza di basi culturali.

L’istruzione, in generale, è il problema. L’ignoranza è un disvalore sempre più rivendicato e sempre più idolatrato come valore, antieroe della contemporaneità: “professoroni”, “maestrine”, “radical chic” sono i termini coi quali sul web si concimano le praterie del dissenso contro le azioni più umane, con l’intento di rivestire di un alone negativo chi si è formato e ritiene di avere i mezzi per discutere di argomenti delicati.

Purtroppo alla politica non è mai dispiaciuto infilarsi in pantani del genere: Michela Murgia, scrittrice e critica letteraria (vincitrice dei premi Campiello e Dessì), giorni fa è stata bersaglio di violentissimi attacchi sui social (insulti sessisti, auguri di stupro e la sequela fognaria ormai nota). Postata sul gruppo facebook “Uniti a Matteo Salvini” (che conta quasi quattordicimila iscritti) con un testo che spiegava come i migranti possono essere una risorsa, si è vista sepolta di parole spregevoli. I nostalgici del fantoccio della Boldrini bruciato pubblicamente si sono scatenati, e la Murgia, oltre a denunciarli, li ha segnalati a tutti noi, “perché le pagine di sostegno al governo leghista che consentono questo linguaggio – al di là delle intenzioni dei commentatori – hanno come scopo l’intimidazione […] a chiunque possa pensarla nello stesso modo e abbia intenzione di dirlo apertamente”.

Ha spiegato, nel post di denuncia, che “il ministro degli interni, che di solito è pronto a twittare su qualunque cosa, in casi come questi tace”, e ha chiuso spiegando che “quando è chi governa a legittimare questo registro, l’azione della violenza è pedagogia di Stato”. Ecco: violenza come pedagogia di Stato. È incredibile pensare come negli anni Sessanta Alberto Manzi insegnava ai bambini il futuro, e oggi ci ritroviamo adulti ai quali quel passato servirebbe per crescere. Ma, in fondo, non è mai troppo tardi.

Seba Ambra – ilmegafono.org