Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Tutto quello che l’Europa e il mondo avevano finto di non capire e di non vedere fin dagli anni ‘30 diventava una storia vera, la prova provata di cos’era successo. Da quel giorno nessuno poteva più dire “io non sapevo”. In realtà, ancora oggi, c’è sempre qualcuno che finge di non vedere, di non sapere, chi nega che tutto questo sia davvero successo e chi vorrebbe succedesse ancora. Il Giorno della Memoria è stato istituito il 1º novembre 2005, con una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’intento è nobile e merita rispetto, ma la memoria non basta celebrarla: bisogna studiarla, elaborarla un giorno alla volta e farla propria, sentirla nel proprio vissuto.

Se questo non accade, allora ciò che nasce come un nobile intento diventa un lasciapassare per la coscienza di molti, primi fra tutti gli Stati e le diplomazie, compresa l’Assemblea delle Nazioni Unite. Eppure, la memoria è la sola radice che nessuno potrà mai estirpare. Cresce, si autoalimenta nonostante tutto, nonostante l’ipocrisia degli Stati che la celebrano solo per un giorno con un discorso o con una corona di fiori posta davanti a una targa o a una lapide. La memoria è un valore quando tutti noi siamo capaci di rileggere in chiave contemporanea quella parte della nostra storia che ci appartiene, perché con quella storia abbiamo il dovere di farci i conti.

Dai camini di Auschwitz, dai campi di sterminio della notte del mondo, la storia esce con tutta la sua violenza e non smette di scrivere. Di quella notte restano ormai pochi testimoni, il tempo li ha vinti quasi tutti. È una storia che ci parla di intere generazioni cancellate, che hanno conosciuto il male come forse nessuno prima di loro. Restano le parole di chi ha potuto raccontare e il silenzio di chi non è riuscito a farlo. Eppure, quei racconti e quei silenzi sembrano non bastare mai e vanno a sbattere contro la stupida cecità di un’umanità che non vuole riconoscersi, ancora oggi. Si parla ancora e sempre di razze e di confini, si costruiscono muri e si srotola ancora il filo spinato.

I campi di concentramento non si è mai smesso di costruirli: il ‘900 si era chiuso con l’orrore di Srebrenica e il nuovo millennio ha continuato su quella strada. Dove non c’era un terreno per costruire nuovi campi, il compito è stato lasciato alle onde del mare che hanno coperto tutto, nel silenzio e nell’indifferenza dei più. La “lectio magistralis” di Pilato ha fatto scuola, ha trovato nei secoli studenti modello che si sono laureati a pieni voti e che ancora salgono in cattedra.

Sono dovuti passare sessant’anni da quel 17 gennaio 1945 prima che le nazioni decidessero che la memoria andava riconosciuta ufficialmente e non va dimenticato che, in Italia, il reato di negazionismo è diventato una legge dello Stato solamente nel giugno del 2016. Eppure, i treni che portavano umanità al macello nei campi di sterminio nazisti partivano anche dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano, e i campi di concentramento erano anche a casa nostra. In quel mezzo secolo e più la memoria è stata offesa ogni giorno, calpestata in ogni angolo del mondo. La memoria viene offesa quando viene esibita un giorno all’anno e rinchiusa nel calendario il giorno successivo. La memoria viene calpestata quando le diplomazie assistono in silenzio al ritorno dei movimenti nazionalisti, xenofobi e fascisti, che radunano le loro croci uncinate nelle piazze e nelle strade. Le destre estreme sono in continua ascesa e governano in non pochi paesi dell’Europa e lavorano ogni giorno per ricreare le condizioni sociali e politiche che hanno incendiato il mondo.

La memoria viene mortificata nella striscia di Gaza e nei territori di Palestina, dove il silenzio sulla politica dello Stato di Israele prende le sembianze di un atto dovuto dalla comunità internazionale allo Stato di Israele, come a chiedere un perdono postumo per il silenzio colpevole che ha permesso le atrocità dell’Olocausto. Ma criticare la politica del governo israeliano non può e non deve essere considerato antisemitismo, così facendo si permette che l’antisemitismo diventi uno strumento nelle mani di Israele e così si chiudono gli occhi sugli aspetti devastanti del sionismo. La memoria viene calpestata quando si ignora, o si dimentica, la storia di un popolo senza terra da sempre: il popolo curdo. Il Kurdistan è una nazione, ma non è uno Stato indipendente perché non gli è mai stato permesso. Eppure, questo popolo senza terra e diritti è stato in questi ultimi anni l’unico vero ostacolo sulla strada dello “Stato Islamico” jidaista. La battaglia di Mosul, la lotta delle donne di Kobane, sono straordinarie pagine di umanità in lotta ma sembrano già dimenticate.

La memoria muore quando si depone un fiore davanti a una lapide ma si chiudono gli occhi e le porte davanti alle carovane di migranti, quando si nega il soccorso in mare e si firmano accordi con il diavolo in cambio del suo impegno a tenere quelle carovane lontane dalla nostra porta di casa. La memoria muore quando si dimentica il genocidio di interi popoli, dagli Indios dell’Amazzonia ai nativi americani, quando si dimenticano i voli della morte sui cieli del Cile e dell’Argentina, quando il colore della pelle continua ad essere una discriminante. La memoria muore nel lager a cielo aperto che oggi si chiamano CPR. Muore ogni volta che, guardando gli ultimi della fila, pensiamo che non toccherà mai a noi. Muore quando non riusciamo a vedere quello che si muove e prende forma dentro ogni movimento della storia, dietro la costruzione dei muri alle frontiere, dietro l’idea della sacralità dei confini, dietro i folli concetti sulla supremazia di una razza.

José Saramago scriveva che “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere”. Allora il punto è davvero questo: la responsabilità che ci assumiamo. La scelta è solo nostra: decidere se la memoria è quella radice che serve per mantenere in vita l’albero, oppure se è un ramo secco e inutile dell’albero stesso e allora tanto vale reciderla, lasciarla morire. In entrambi i casi, la scelta è nostra e non possiamo delegarla ad un giorno del calendario, perché quella scelta la troveremo davanti a noi ogni giorno, sempre, e ogni giorno ci chiederà da che parte della strada stiamo camminando. 

Maurizio Anelli -ilmegafono.org