Certe notti la luce si spegne. Il tempo passa e la luce non torna, qualche volta quel tempo sembra interminabile e la rassegnazione bussa alle porte della mente e del cuore. Difficile non rispondere a quel bussare, difficile resistere alla tentazione di aprire quella porta. Basterebbe poco, anche un solo spiraglio e la rassegnazione entrerebbe e, all’inizio, assomiglierebbe a una gentilezza che consola, una compagnia necessaria e quasi richiesta. Poi, un giorno alla volta, si prenderebbe tutto: la vita delle persone, la determinazione e la volontà. La notte del 25 gennaio 2016 era il quinto anniversario della rivoluzione egiziana e, in una strada del Cairo, in Egitto, si spegneva la luce per Giulio Regeni. Scompare, e di lui non si sa più niente fino al 3 febbraio quando, sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria, viene ritrovato il suo corpo, offeso e martoriato.

Giulio aveva solo ventotto anni, era nato a Fiumicello, in provincia di Udine, e non aveva paura di camminare per le strade del mondo, perché lui quel mondo lo voleva conoscere, studiare, capire. Per questo motivo lascerà le strade di quel paese per camminarne altre: Stati Uniti, Inghilterra. In Egitto ci arriva come ricercatore dell’Università di Cambridge per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani, esattamente il soggetto che il regime egiziano del generale Abdel Fattah al-Sisi cataloga come gli oppositori politici più pericolosi. E, allora, Giulio diventa l’osservato speciale dei servizi segreti egiziani, seguito e pedinato in ogni sua mossa. La luce sopra di lui è sempre più pallida e si spegne in quella notte del 25 gennaio.

La madre e il padre di Giulio, Paola e Claudio, non hanno mai aperto la porta alla rassegnazione e se quel bussare lo hanno sentito non lo hanno mai ascoltato. Eppure, in tanti hanno spinto perché quella porta venisse aperta, mai in prima persona, ma piuttosto con l’ipocrisia di un’assenza a volte silenziosa e imbarazzante e altre volte più audace, perché la ragion di Stato e gli equilibri internazionali hanno un peso specifico rispetto alla vita di un ragazzo di ventotto anni. La Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni prende vita solo nel dicembre del 2019, quasi quattro anni dopo la sua morte e, nel febbraio del 2020, le agenzie di stampa rivelano che l’Egitto ha chiesto ad alcune banche italiane un ingente prestito, che potrebbe servire a pagare parte dell’acquisto di forniture militari dall’Italia.

È la televisione del Qatar “Al Jazeera” a domandare se “l’Egitto rafforza il suo arsenale militare con un grande accordo con l’Italia. La morte di Regeni c’entra qualcosa?”. Sì, forse la morte di Giulio c’entra qualcosa. Ci sono gli accordi commerciali, gli investimenti, la vendita di armi all’Egitto, molto più di qualcosa, mentre sul fronte politico e dell’azione del governo italiano si assiste ad una timidezza eccessiva nel chieder conto al regime egiziano. E poi ci sono le dichiarazioni politiche di parlamentari e membri del governo. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ad  esempio, che di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta afferma: “Dubito che la vendita di questi prodotti sia da intendere come un favore dell’Italia all’Egitto. Non credo che infici la ricerca della verità, né che possa essere intesa come una sorta di leva per raggiungere quell’obiettivo”. “Utili in questa prospettiva – ha ribadito il ministro – l’azione del governo, della magistratura, del corpo diplomatico e dell’intelligence italiana”. Intanto l’affare milionario va in porto senza nessuna discussione e votazione del Parlamento.

Paola e Claudio non conoscono la rassegnazione, non appartiene alla loro vita. Si battono, chiedono verità e giustizia. Trovano la solidarietà di tanta gente, ma anche quel muro di gomma dove lo Stato si dimostra incapace di pretendere quella verità. Il muro di gomma è una costante che si ripete dai tempi dell’assassinio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin a Mogadiscio, il 20 marzo 1994. Sono molte, troppe, le analogie in queste due pagine di storia.

Poi, un giorno, accade qualcosa. La luce non è ancora tornata, è solo una fiammella piccola ma può diventare più grande. Il Teatro alla Scala di Milano riceve un invito per una tournée in Egitto: quattro recite della Traviata, un concerto e il balletto Giselle. È un invito importante, può portare in dote denaro fresco, qualcuno azzarda una stima che oscilla fra i 4 e i 5 milioni di euro. All’ingresso del Comune di Milano, a Palazzo Marino, proprio davanti al Teatro alla Scala, da molti anni c’è uno striscione che chiede la verità per Giulio Regeni: i lavoratori del teatro e l’orchestra decidono che non si può e non si deve andare, che quella tournée non si può fare. È un rifiuto senza condizione, e non negoziabile. La direzione del teatro prende atto, ma dichiara anche che “non è mai stata programmata e nemmeno formalizzata l’ipotesi di una tournée nella terra dei faraoni, il Consiglio di amministrazione non ha discusso di una tournée in Egitto e il sovrintendente e direttore artistico Dominique Meyer, unico che dispone delle deleghe autorizzative, non ha ricevuto i sindacati per presentare o discutere con loro di una tournée in Egitto”.

Difficile stabilire e capire se quest’ultima affermazione corrisponda al vero, difficile anche pensare che un evento di questa portata non fosse stato formalizzato e discusso fra i vertici del Teatro e, forse, non ha nemmeno importanza. Subito dopo, infatti, Dominique Meyer, sovrintendente della Scala di Milano, chiude il discorso in un’intervista a Repubblica affermando: “Avevamo ricevuto la proposta per fare una tournée in Egitto, ne riceviamo tante ogni giorno, ma quando i sindacati mi hanno spiegato che c’era la questione del caso di Giulio Regeni ho detto subito: non la facciamo, se c’è questo problema”. Importante, invece, la presa di posizione dei lavoratori del Teatro che rifiutano di esibirsi sul palcoscenico di un Paese dove un regime militare totalitario calpesta i diritti umani.

Importante che questa decisione maturi fra i lavoratori e costringa i vertici, siano essi di un Teatro o di qualunque altra impresa, a non pensare nemmeno di poter negoziare quella decisione. È una lezione, piccola o grande che sia, che viene impartita ai vertici del Paese. È una lezione che chiama in causa e coinvolge anche i vertici e i lavoratori di quelle aziende che, in nome del profitto, accettano ogni condizione, perché tanto se non lo fanno loro lo farebbero altri. Certo, è vero: lo farebbero altri, ma la vita è fatta anche di scelte e le scelte sono sempre una questione difficile da capire e accettare e spesso sono scelte dolorose.

La famiglia di Giulio Regeni ha ringraziato “ogni singolo lavoratore della Scala per questa scelta di responsabilità culturale, morale e politica. Vorremmo che tutti i rappresentanti politici italiani ed europei, gli artisti, gli imprenditori e i turisti seguissero il loro esempio lodevole”. Un semplice gesto di dignità e coraggio vale più di mille parole, serve a mantenere viva l’attenzione e a non dimenticare, diventa un abbraccio che stringe Paola e Claudio Regeni e li protegge dalla rassegnazione. Quell’abbraccio diventa anche uno schiaffo: all’indifferenza di molti e alla debolezza di uno Stato incapace di chiedere con fermezza e determinazione la verità sulla morte un ragazzo, in nome degli equilibri politici e di mercato. Certe notti la luce si spegne. Poi, con un semplice gesto, la notte diventa meno scura. Non è ancora un’alba nuova, è solo un giorno diverso e più pulito, ancora capace di non aprire la porta alla rassegnazione, perché è l’unica cosa di cui questo mondo non ha bisogno.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org