“Nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove l’onore è il disonore… Nascono potenze e nobiltà, feroci, nei mucchi di tuguri, nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte”. (Pier Paolo Pasolini)

Abitare nelle periferie delle città del mondo, vivere la strada e conoscerla. La strada insegna sempre, ma è dura, tante volte colpisce con violenza e fa male. L’errore più grande è considerare la periferia solo un concetto geografico, ai confini e alle spalle della metropoli. Il modello di società che si è affermato con forza e cattiveria ha cambiato la prospettiva, ha costruito e modellato nuovi ghetti, veri e propri non-luoghi per definizione, ai margini dell’accettazione e del riconoscimento sociale. Sulle strade delle banlieue di Parigi i tamburi della ribellione chiedono quello che nessun potere è disposto a concedere. Una ribellione che non nasce da un giorno all’altro. Ha una sua genesi, è un cammino che parte da lontano ed esplode con tutta la sua carica di rabbia e di orgoglio ferito e umiliato. Non è la prima volta ma, come troppe volte succede, lo Stato non capisce i segnali e, forte del proprio potere, ritiene di essere sempre in grado di soffocare ogni grido e ogni protesta.

Era già successo nel 1979, con la sommossa a Vaulx-en-Velin, comune alle porte di Lione, e poi nel 2005 a Parigi quando la rivolta scoppiò in seguito alla morte di Zyed Benna e Bouna Traoré per mano della polizia: le strade delle banlieue si riempirono delle barricate degli esclusi e dei discriminati, ragazzi giovani e giovanissimi che non potevano accettare di non essere considerati cittadini a pieno titolo della Repubblica francese. Oggi le periferie francesi bruciano ancora una volta: Parigi, Marsiglia, Lione, Saint-Étienne. La rabbia è esplosa dopo la morte di un ragazzo, ucciso da un gendarme a Nanterre. Quel ragazzo si chiamava Nahel e aveva solo diciassette anni. Il presidente transalpino Emmanuel Macron ha ammesso che “un adolescente ucciso è un fatto inspiegabile e ingiustificabile”, ed ha esortato alla calma perché “non c’è bisogno che divampi un incendio”. Impossibile, però, spegnere un incendio quando per decenni si sono colpevolmente ignorate tutte le scintille.

In questi giorni, in molti hanno scritto sul perché di questo incendio: analisi, spiegazioni, grande spazio e attenzione alle violenze di strada. Ma le radici sono profonde, incise nella storia di Francia e non solo: se è vero che le proteste si sono estese alla Svizzera e al Belgio, se è vero che le banlieue non sono un’esclusiva di Parigi e della Francia, allora significa che è la società globale a doversi guardare allo specchio e rispondere di se stessa e del suo modello di vita. Certo, il passato coloniale della Francia ha nella storia un peso enorme. L’occupazione dell’Algeria è durata più di cento anni, e poi il Marocco e la Tunisia. Sono molti i Paesi europei che si sono macchiati del colonialismo e del sentirsi padroni in una terra che non era la loro, compresa l’Italia. La storia delle periferie francesi assomiglia molto a quella di tante periferie europee, è solo più marcata.

Agli errori, e agli orrori, di un passato coloniale nemmeno lontano si sono aggiunti gli errori del presente, quelli più vicini ai nostri tempi. Allora il discorso si sposta e abbraccia un contesto che parla di migrazione di prima, seconda e terza generazione. Un contesto che parla di un’integrazione di massa che non riesce ancora ad arrivare. Perché non arriva? Se la prima generazione, per intenderci quella degli anni ‘50, ha accettato un ruolo comprimario – con dignità ma anche con rassegnazione – le generazioni successive non hanno accettato quel ruolo. Chiedono e rivendicano, con diritto, le stesse possibilità e le stesse opportunità che tutti i cittadini francesi hanno. Invece, la possibilità di una crescita sociale ed economica è rimasta ferma al palo, un privilegio irrealizzato. Quelle generazioni che vivono il disagio e la mancanza di opportunità, e che non sentono la Francia come una casa che dovrebbe essere anche la loro, abitano un deserto sociale e istituzionale.

Sono giovani e giovanissimi che hanno nomi maghrebini, subsahariani, ecc., figli di una globalizzazione che non ha portato nessuna emancipazione ma solo confusione e isolamento.  È l’anima dello Stato il vero assente delle periferie, ma lo Stato non ha mai voluto ammettere questa assenza, ed è in quel deserto che sono cresciute la rabbia e le risposte, anche quelle sbagliate e violente che finiscono per ritorcersi contro le loro stesse comunità. Lo Stato e la politica, il modello di società e la vita di tutti i giorni, che assorbono e prosciugano ogni sentimento e ogni capacità di guardare oltre la porta di casa. Da dove cominciare per capire quali sono i cardini che chiudono le porte a un diverso sviluppo delle periferie, in Francia e non solo? Quante responsabilità hanno l’indifferenza e il razzismo istituzionale che in Francia e in Europa stanno ri-conquistando governi e cittadini? Qual è il peso specifico delle predicazioni politiche della destra, da quella estrema a quella che si definisce moderata, che nel corso degli anni ha scaricato sui migranti e sugli stranieri tutto il carico di razzismo e di isolamento etnico e sociale?

La destra francese aspettava questa occasione e nel caos e nella violenza intravede sempre più vicina la porta del palazzo presidenziale. Tutto questo va oltre Parigi. Il vuoto politico è da sempre un vuoto di rappresentanza, dove tanti cittadini avvertono il bisogno del leader unico. La Francia degli ultimi anni ha conosciuto il movimento dei “gilet gialli” nel 2018 e gli scioperi di massa contro l’innalzamento dell’età pensionabile, ha conosciuto la ribellione e lo scontro sociale, duro e violento. La rivolta di questi giorni è stata forte, violenta. Forse anche sfuggita di mano nella sua furia, come spesso accade quando una situazione incancrenita nel tempo esplode fra le mani, ma non è ordinando alle prefetture di bloccare i mezzi di trasporto pubblico e mobilitando tutte le forze dell’ordine sulle strade – come è successo in questi giorni – che si acquista la credibilità dei cittadini. La risposta dello Stato non può essere quella della repressione e della durezza della polizia, quello che manca – e non solo in Francia, è bene ricordarlo sempre – è l’anima dello Stato.

Quell’anima è assente, nelle banlieue e nella vita degli strati sociali più deboli. Quell’anima è assente quando tutto viene trattato solo come un problema di ordine pubblico e si pensa che il pugno duro sia l’unica risposta, quando non si guardano in faccia le radici malate della realtà. Quelle radici hanno un nome: si chiamano disuguaglianze sociali e povertà, disoccupazione, politiche sociali e Welfare che sono stati cancellati, razzismo e discriminazione. Guardare in faccia queste radici malate significa affrontare, capire e cambiare un modello sbagliato di società. Quanto coraggio serve per farlo? Liberté, Égalité, Fraternité. Lo spirito e l’anima della Rivoluzione francese, parole bellissime citate anche nell’articolo 2 della Costituzione francese. Hanno ancora un senso queste parole? Se lo hanno ancora, se le Costituzioni sono ancora una legge da rispettare e condividere – in Francia come in Italia e in ogni parte del mondo – è ora che gli Stati e i governi lo dimostrino con i fatti e nella vita reale.

Sabato 1 luglio, nella moschea di Nanterre, si è celebrato il funerale di Nahel. Erano in migliaia per l’ultimo saluto, così tanti che la moschea non poteva contenerli tutti. A diciassette anni non si può spegnere la vita e non si può accettare che qualcuno la possa spegnere, tantomeno quando chi la spegne indossa una divisa che rappresenta lo Stato. Resta una ferita che si aggiunge alle tante altre che popolano le case e le strade delle banlieue, dove la rabbia non potrà mai diventare rassegnazione. Quelle case e quelle strade dove intere generazioni di ragazzi non si sentono a casa loro e combattono contro nemici più grandi di loro. Accanto a loro resterà la voce di un’anziana donna, la nonna di Nahel. Lei che, nei giorni della violenza, gridava a quei ragazzi di fermarsi, di non bruciare gli autobus perché su quegli autobus c’erano altre mamme con altri figli. Lei, la nonna, che quella rabbia l’ha conosciuta prima di loro perché figlia di quella integrazione multiculturale che è rimasta solo un’utopia. Lei, anche davanti al dolore più intimo, l’anima non l’ha persa. Quella dello Stato, invece, si nasconde ancora.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org