“Non possono poche persone mortificare un intero territorio. Occorre uno scatto in più da parte di tutti ed essere cittadini vigili. Dobbiamo essere una spina nel fianco per evitare che la mafia sia vissuta come un fenomeno normalizzato. Non possono essere alcuni gruppi di persone a mortificare questa terra generosa e sofferente. Le istituzioni sono sacre, ma dovrebbero fare di più. Le mafie sono più forti di prima”. Sono queste le parole di don Luigi Ciotti, pronunciate a Foggia nel trentesimo anniversario dell’assassinio dell’imprenditore Giovanni Panunzio, ucciso per non essersi piegato alle richieste del racket. Un scia di sangue, una vera e propria guerra di mafia sta attraversando Foggia e la sua provincia. Il procuratore di Bari, Roberto Rossi, che con la DDA coordina le inchieste sui clan foggiani, ipotizza che la criminalità organizzata di stampo mafioso sul territorio sia in difficoltà. A queste difficoltà reagisce con la violenza e gli omicidi. Dall’inizio dell’anno a oggi, si sono registrati 12 delitti e 13 vittime, oltre a numerosi agguati falliti. Omicidi efferati, vere e proprie spedizioni punitive.

L’ultimo grave fatto di sangue è avvenuto la sera del 3 novembre 2022, quando nei pressi di un chiosco di viale Giotto, a Foggia, Agostino Corvino, nipote del boss Tolonese, è stato crivellato di colpi e ucciso mentre insieme alla sua compagna stava festeggiando 50 anni. Un recentissimo documentario sulla mafia foggiana, scritto e realizzato da Carmen Vogani, Marco Carta e Lorenzo Giroffi (che firma anche la regia), offre un punto di vista critico sull’ascesa della violenza criminale nella Capitanata. Una storia criminale che va avanti da oltre quarant’anni. Quella foggiana è stata la mafia più sottovalutata d’Italia. Una mafia di cui poco si parla, una mafia che non interessa nessuno,  avvolta nel silenzio, nonostante i morti, il sangue, la violenza, gli spari e la sofferenza di un territorio che viene trattato come fosse fuori dai confini nazionali.

Puglia sotto attacco, titola il documentario. Una mafia che si allea, che si espande, nonostante il lavoro dei magistrati, della DDA, dei processi. Usura, contrabbando, assalti, droga, corruzione, sfruttamento della prostituzione, racket. Un territorio affidato ai clan. Ecco perché don Ciotti incita ad essere una spina nel fianco dei mafiosi, invitando la società civile alla ribellione. La vita con la mafia, insieme alla mafia, non può diventare normalità. Non può e non deve. Su queste pagine abbiamo spesso denunciato il silenzio sulle mafie, la mancanza di programmi e progetti per contrastarle da parte di tutte le forze politiche, soprattutto di quelle attualmente al governo. Un governo che usa il pugno duro contro i migranti, che definisce “carico residuale” uomini, donne, bambini e bambine, stipati nelle imbarcazioni delle Ong, ma usa l’arma del silenzio nei confronti delle mafie.

Da molti anni le luci sulla mafia si sono spente. Non perché è finito lo “spettacolo”, non perché è calato il sipario e sono partiti gli applausi, non perché l’ultima battuta è già stata pronunciata. Nulla di tutto questo. Le luci si sono spente perché “qualcuno” ha staccato la spina dell’attenzione su questa tragedia nazionale. Spente le luci, chiuso il sipario, interrotte le battute. Silenzio. Buio. “La caratteristica del buio è che ci galleggi dentro: tu e l’oscurità siete separati l’uno dall’altra perché l’oscurità è assenza di qualcosa, è un vuoto”, recita una battuta di un film americano del 2007, intitolato “Sunshine”. Proprio il senso di vuoto e l’assenza della politica che lotta insieme alla società civile sono le caratteristiche di tutti i territori manovrati dalle mafie. E la terra di Capitanata ne è un esempio rilevante. Questo silenzio, questa assenza delle istituzioni, fanno venire in mente due parole: omertà e connivenza.

L’omertà è il riserbo assoluto determinato da complicità e insieme dal timore di una vendetta; la connivenza è il tacito consenso o tolleranza nei confronti di un azione colpevole. Ecco perché le parole di don Ciotti suonano necessarie e indispensabili. Il silenzio, il buio pesto, l’omertà, la connivenza sono i cibi di cui la mafia si nutre. Se questo buio imposto, imparassimo ad abitarlo, imparassimo a respirarlo come hanno imparato le persone non vedenti, potremmo riempirlo di lucciole per ricominciare a vedere, per illuminarlo con la solidarietà, con la cultura, l’arte, l’istruzione. Gesualdo Bufalino amava ripetere che la mafia si combatte anche con un esercito di maestre elementari. Questi concetti, che qualcuno definisce “buonisti”, se applicati, esercitati, vissuti e non solo cinicamente pronunciati, possono riaccendere i fari sul palcoscenico, riaprire il sipario e ricominciare a pronunciare le battute. Perché le ultime battute non spettano ai mafiosi, ai politici collusi, alle istituzioni inquinate, ma a tutte le vittime, a tutte le persone perbene, perché per rilanciare l’Italia, conclude don Ciotti “servono coscienze inquiete”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org