Sono bastate una notte, una telefonata tra i presidenti Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, e un tweet a cambiare il quadro geopolitico al confine del Kurdistan siriano e non solo. Un quadro che risultava apparentemente chiaro, con linee nette che mostravano gli Stati Uniti al fianco delle forze curdo-siriane nella lotta al Califfato a Raqqa, roccaforte dei gruppi armati dello Stato Islamico. Un solo nemico comune, l’ISIS, fungeva da collante tra SDF, YPG, YPJ e le milizie statunitensi che hanno unito le armi ma mai le intenzioni di restare a combattere al fianco dei curdi contro chi aveva alimentato il fuoco delle armate islamiche: la Turchia, il passepartout per eccellenza delle milizie del Califfato.

Il presidente degli USA, Donald Trump, ha twittato la sua decisione di ritirare le truppe statunitensi dal nord-est della Siria al fine di consentire l’avanzata turca verso i territori di Bashar Al Assad. Terreni, quelli siriani, che la Turchia corteggiava da tempo. Dallo stesso tempo in cui ha invaso la capitale del Kurdistan siriano: Afrin. La decisione degli USA non è stata, come si potrebbe pensare, una doccia gelata. I curdi erano pronti a vedere le spalle della coalizione statunitense. Sapevano che il gioco di armi contro il nemico comune sarebbe finito presto.

Il piano del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è quello di schiacciare la Rivoluzione del confederalismo democratico in atto nei territori del Kurdistan siriano, annettersi le terre e proseguire la sua avanzata espandendosi su quel fazzoletto di terra già martoriato appartenente alla Siria. Per portare avanti la sua armata era necessario richiedere che le milizie USA, poste in gioco per aiutare le milizie curdo-siriane nella lotta all’ISIS e creare una “safe zone” nel Rojava – come pattuito il 7 agosto scorso tra le due potenze – in un’area di 500km tra Siria e Turchia, battessero in retromarcia liberando e consentendo il passaggio dell’esercito turco. In una sola notte la bandiera americana ha fatto marcia indietro, stendendo così un tappeto rosso ad Erdogan all’entrata del Nord-Est della Siria. Le prime truppe turche hanno attraversato il confine nord-orientale della Siria, lungo la frontiera vicino le città di Tal Abyad e Ras Al-Ayn, in procinto di un’offensiva per far marciare indietro anche le milizie curde che continuano a proteggere l’area.

Abbiamo sentito al telefono H. I. insegnante curdo di Afrin, ora sfollato nei campi profughi siriani.

Cosa ha generato nei curdi la posizione presa dagli Stati Uniti?

La posizione presa dagli Stati Uniti non ci meraviglia. Durante la battaglia di Afrin, YPG e YPJ lottarono contro gli invasori per due mesi senza alcun supporto di una grande potenza mondiale. Persino gli Stati Uniti si sono rifiutati di alzare un dito per difendere Afrin. L’assalto e la presa della città curda si sono consumati nel silenzio assordante e nel disinteresse della comunità internazionale, in particolare dell’Europa e della NATO, sotto la guida degli Stati Uniti. Temiamo che la stessa cosa stia accadendo di nuovo oggi nell’Eufrate orientale. Analisti ed esperti ricordano come i curdi siano stati a lungo sfruttati nelle operazioni anti-Isis, per poi essere abbandonati.

Perché, secondo voi, questo dietrofront da parte di truppe facenti parte della coalizione?

Bruxelles è più interessata alla sicurezza delle frontiere e vede Erdogan come un “alleato” chiave nel contenere il fenomeno migratorio e in una più ampia discussione sulla geopolitica internazionale. In questa situazione di follia e assurdità orwelliane, il mondo siederà pigramente a guardare mentre la Turchia e i suoi criminali islamici stanno lanciando un assalto, non provocato, contro il pacifico Rojava. Una democrazia secolare che celebra i diritti delle donne viene attaccata da una nazione armata fino ai denti e governata da un despota autoritario, il cui regime è sordidamente legato a gruppi jihadisti estremi e ferocemente intenzionato a distruggere una delle uniche isole della democrazia -Rojava – per trasformarla in un mare di dispotismo mediorientale. Le truppe alleate alla Turchia hanno cantato canzoni di al-Qaida e hanno minacciato di tagliare la testa alle loro vittime “atee”. È questo quello che ci spetta?

Mentre l’Europa, la NATO e gran parte dei leader internazionali chiudono gli occhi come fosse notte fonda, l’inferno di una guerra ormai lunga anni è pronto a bruciare ancora su nuovi territori, lasciando come sempre ai civili la flebile speranza di un’alba che non verrà e scoprendo il volto dell’ennesimo genocidio dalle urla silenti.

Rossella Assanti -ilmegafono.org