Uno dei “miracoli” che Matteo Salvini è riuscito a compiere, è quello di averci fatto dimenticare per un po’ l’altro Matteo. Renzi. L’uomo che, sul finire del 2016, scelse di suicidarsi politicamente. Quello che, dopo una stagione di governo passata a martellare, con ottusa arroganza, i capisaldi della sinistra che avrebbe dovuto rappresentare e alla quale invece è allergico, decise di lanciarsi da un aereo senza paracadute. E ridendoci pure su. Lo stesso Renzi che giocò un immotivato “all-in” sul tavolo di un referendum costituzionale che, alla luce di quel che è accaduto dopo, è una fortuna che sia stato bocciato. Peraltro grazie anche al voto contrario di quelle parti politiche che, sempre con il senno di poi, avrebbero guadagnato tantissimo dall’approvazione di quella riforma. Avere una sola camera con una maggioranza schiacciante e priva di reali contrappesi istituzionali, probabilmente sarebbe stata una manna dal cielo, per i 5 stelle prima e per la Lega oggi. E un pericolo serio per tutti noi.

Ad ogni modo, l’altro Matteo, quello fiorentino, rampollo di un PD “della rottamazione” a cui evidentemente è sfuggita di mano la leva della pressa, ha aperto la stagione dell’antipolitica al potere. Dopo aver fatto infuriare i lavoratori spazzando via garanzie fondamentali (e non soltanto l’articolo 18 che riguardava una sola parte), dopo aver superato la destra sul tema della ferocia contro migranti e Ong, dopo aver regalato porzioni pregiate di territorio a petrolieri e industriali (in Sicilia ne pagheremo le conseguenze in Val di Noto), Renzi ha consegnato il Paese alle destre. Anzi peggio, a quel miscuglio ibrido e pericoloso, intriso di veleno, incompetenza e crudeltà, che è stato il governo gialloverde.

Lo ha fatto forzando la mano sul referendum costituzionale, dimettendosi quando nessuno, nemmeno l’opposizione, glielo chiedeva. Lì ha aperto la crisi che ha portato alle elezioni del 2018, dopo una campagna elettorale disastrosa, passata ad attaccare con acidità chiunque a sinistra dissentisse dalle sue posizioni, oltraggiando costituzionalisti, giornalisti, intellettuali. Ha perso e ha annunciato le sue dimissioni. Ma in realtà ha continuato a giocare, facendo crollare un accordo praticamente siglato con i 5 stelle, che avrebbe evitato a Salvini di governare e di usare l’inettitudine di Di Maio e dei grillini per raddoppiare il proprio consenso tra gli elettori. Ha fatto crollare tutto, si è lanciato nuovamente senza paracadute, trascinando con sé il Paese. E ridendo ancora. Anzi, questa volta si è lanciato con tutta la poltrona e un pacco di pop-corn in mano. Voleva godersi lo spettacolo, dopo aver portato il suo partito a perdere, in meno di due anni, oltre 2,6 milioni di voti.

Alla fine spettacolo fu. Uno spettacolo osceno al quale tutti abbiamo assistito, senza mangiare i pop-corn ma con lo stomaco chiuso. Uno spettacolo orribile, con una sceneggiatura carica di ingiustizie, dolore, odio infettivo che ha travolto la nazione. Per fortuna ci ha pensato l’altro Matteo, quello lombardo, a emulare Renzi e a suicidarsi facendo cadere un governo che era per lui un bancomat di consensi. Lo ha fatto per arroganza, per l’avidità di pieni poteri che, fino a quando sarà in vigore la Costituzione, non potrà mai avere. E adesso? Mentre uno ingozza le sue folle cornute, usando i bambini e l’ennesima menzogna per aggiungere altro squallore alla sua propaganda, l’altro si sfila dal suo partito dopo averlo spinto a un accordo di governo con l’odiato nemico pentastellato. Si sfila, giurando appoggio all’esecutivo ma in realtà usando la sua exit strategy come una minaccia, come una vendetta contro chi lo ha espropriato (democraticamente) dal suo trono di potere dentro il partito.

Il numero di parlamentari è la chiave di tutto. L’onta subita dai toscani del PD, quasi totalmente legati a Renzi, nella vicenda della nomina dei sottosegretari, è solo un pretesto. Non potrebbe essere altrimenti. Perché Matteo Renzi, magari non è dotato di grande acume politico, ma di certo non è stupido e non può far dipendere una scelta di rottura così importante e in un momento così delicato per il Paese da una questione di posti. Anche perché sarebbe una contraddizione troppo evidente. Significherebbe sperare che ciascuno di noi dimenticasse la mossa autoritaria e imbarazzante dell’allora segretario Renzi, quando al momento della compilazione delle liste per le politiche del 2018 si barricò nella sua stanza con una porta blindata, circondato dai suoi fedelissimi, e scelse unilateralmente le pedine da piazzare, penalizzando le altre correnti e anime del partito e mettendo in cassaforte il suo stuolo di cortigiani.

Volarono parole grosse, qualcuno raccontò che per poco non volarono anche schiaffi e cazzotti. Il Matteo toscano riuscì a garantirsi un gruppo parlamentare forte. Con tutto ciò che ne consegue. In effetti, le elezioni non furono totalmente disastrose. O meglio, lo furono per il Partito Democratico, dentro il Paese, ma per il giglio magico di Renzi ci fu la consolazione di avere un potere interno ancora forte. Da usare in parlamento contro chiunque volesse far cambiare rotta al PD. Ecco, adesso Renzi esce. Se ne va via, ufficialmente per il bene del Paese e per un atto d’amore per la Toscana. Non tutti lo seguiranno. Anche qualche fedelissimo lo ha mollato. Promette lealtà e sostegno al governo. Ma Renzi, si sa, ha già dimostrato di essere inaffidabile, di essere una cellula impazzita dall’ego sconfinato e nocivo. Di sicuro, grazie al suo magheggio con le liste del 2018, si è garantito un presidio di forza, che in aula sarà una spada puntata sul governo e soprattutto un’arma di vendetta pronta contro il segretario che lo ha detronizzato.

Al primo passo falso, probabilmente lo spintone decisivo verrà da quel gruppo. Quel gruppo capeggiato da chi prima ha spinto per l’accordo con i 5 stelle, costringendo Zingaretti ad accettare e a metterci la faccia, e poi si è sfilato per trasformarsi in minaccia. Una trappola. Fin troppo evidente. La preparazione dell’ennesima resa dei conti interna tra fazioni, in barba all’interesse collettivo, al bene del Paese. Un bene che anche per questo Matteo, come per l’altro, conta molto poco. Di sicuro molto meno del proprio narcisismo, dei propri interessi e della propria ossessione per il gioco del potere e per la visibilità.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org