Silenzio, fate piano, non vorrete rompere questo agognato silenzio! Un silenzio fatto di notizie nascoste o abilmente sepolte sotto cumuli di gossip, di iniziative disertate, di infelici proclami politici. Un silenzio cullato dall’inesistente interesse e, ancor peggio, dal totale disimpegno del governo attuale verso un argomento evidentemente scomodo: la lotta alle mafie. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una pericolosa inversione di tendenza nel sentire sociale: è nuovamente calata una coltre di silenzio sull’argomento. Sono lontanissimi i tempi in cui un certamente troppo ottimista Renzi annunciava la sconfitta della mafia. Nella realtà, si è tornati a non vedere, a non parlarne o, talvolta, a parlarne a sproposito.

Di certo poco costruttive sono infatti frasi come quelle recenti del governatore della Sicilia, Nello Musumeci, il quale, in occasione della terribile ondata di maltempo che ha dilaniato l’isola ha dichiarato: “A volte penso che sia più facile sconfiggere la mafia che certa burocrazia”. Una frase biasimevole, non solo perché rischia di dare una lettura troppo semplicistica e riduttiva del fenomeno mafioso, ma anche perché, il più delle volte, sono proprio interessi mafiosi a muovere gli ingranaggi macchinosi di quel certo tipo (vergognoso) di burocrazia.

Ma la diffusa perdita di attenzione per la tematica trova attualmente il suo esempio più vivido in quanto sta accadendo in Emilia Romagna. Si è infatti concluso recentemente, dopo due anni di udienze, il processo “Aemilia”, un vero e proprio maxiprocesso che ha portato a ben 118 condanne, cristallizzando di fatto una realtà che per troppo tempo in tanti hanno rifiutato: ossia che la mafia esiste anche al Nord. Esiste e opera, esattamente come al Sud, con la stessa organizzazione, con la stessa mole di affari, con la stessa pericolosità. Un processo, quindi, davvero importante, ma che inspiegabilmente, nonostante ciò, non ha ricevuto quasi alcun risalto mediatico.

Nemmeno quando Francesco Amato, condannato a 19 anni per associazione mafiosa, ritenendo ingiusta la condanna comminatagli dai giudici, ha pensato bene di fare irruzione in un ufficio postale di una frazione di Reggio Emilia e di tenere per sette ore cinque persone in ostaggio. Offrendo al processo un epilogo degno di un serial poliziesco di successo e prestandosi bene, in teoria, ad un notevole clamore mediatico che però, nei fatti, non c’è stato, come se fosse più opportuno, quasi necessario, distogliere l’attenzione dall’intera vicenda e, al contempo, come se l’argomento non fosse ormai tra i più gettonati.

La lotta alle mafie non fa più audience in televisione, nei giornali e durante i convegni. Così è successo che, sempre a Reggio Emilia, sia stata quasi completamente disertata dal pubblico una importante conferenza, a carattere nazionale, sulle attività dell’amministratore giudiziario nel contrasto alle attività delle organizzazioni criminali. Il dubbio è che la rabbia e l’indignazione causate dal periodo stragista si siano affievolite con il passare degli anni lasciando spazio ad una ingenua e pericolosa indifferenza. “L’impegno contro la mafia – disse una volta Paolo Borsellino – non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi al punto di partenza”. Un rischio che dovremmo cercare di scongiurare perché, come la storia ci insegna, potrebbe portare con sé conseguenze terribili.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org